Puntata 51 – CAMPI D’ENERGIA UTOPICA: “LA POTENZA DEL RISO: La prosa scientifica: Leopardi (1798-1837) e Galilei”

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51 – La prosa scientifica: Leopardi (1798-1837) e Galilei

Tra gli economisti napoletani, veneziani o milanesi di fine Settecento e lo scienziato geologo lombardo di fine Ottocento, nell’isolamento della sua biblioteca di Recanati, un altro discepolo di Galilei unisce scienza e letteratura: Giacomo Leopardi (1798-1837).
Come osserva Gaspare Polizzi nel suo fondamentale studio su Galileo in Leopardi (2007) l’idea di natura in Leopardi fin dalle sue prime opere giovanili come la Storia dell’Astronomia (1811) o il Saggio sopra gli errori dei popoli antichi (1815) o nelle Operette Morali (1824) o più tardi nello Zibaldone e nella Crestomazia della prosa, viene tutta dalla attenta ragionata lettura delle opere di Galilei.
Per Leopardi, Galilei è “il più gran fisico e matematico del mondo… il filosofo sempre intento a considerare gli arcani della natura” (Zibaldone I, p. 1007) come il moto, e soprattutto il tempo. Con lo studio del pendolo e col telescopio egli permise di “avvicinare gli astri” come lo scienziato dimostrò al Doge di Venezia dall’alto del campanile di San Marco.
Ma Leopardi coglie in Galilei due meriti nei quali egli stesso si riconosce: la capacità di superare “gli errori degli antichi” per poter aprire le vie al futuro, e soprattutto quello di aver scelto l’italiano che permetta a tutti di leggere il Libro della Natura.
Leopardi non entra nella disputa astronomica sulla centralità del Sole, che conosce solo di seconda mano, filtrata dalle idee clericali del padre, e infatti la Storia dell’astronomia è solo che una sterminata bibliografia, ma si confronta con Galilei soprattutto sul terreno della lingua, che sente totalmente proprio: la lingua per Leopardi “non è che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole” (Zibaldone I, p. 349) e per Galilei il libro della Natura è “scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche” (Saggiatore, 6).
Le riflessioni sulla lingua italiana come lessico e come stile, formano un motivo costante nel pensiero di Leopardi (16 pagine dell’indice analitico dello Zibaldone ce ne danno la misura), e sempre si rifà a Galilei quando tocca l’aspetto della chiarezza e dell’eleganza: “di questa associazione della precisione coll’eleganza è splendido esempio… lo stile di Galileo” (Zibaldone I, pp. 886 e 1256).
Ma le parole di quella lingua, sono figure geometriche o numeri che non ammettono variazioni, per questo formano una lingua universale, dunque artificiale, ma sarà una lingua morta. E conclude: “il mondo non sarà mai geometrizzato” (Zibaldone II, 1823, p. 348 e sgg.) e la vera lingua universale, quella comprensibile da tutti, non potrà essere che la lingua della poesia, espressione dell’animo individuale.
Riporto, abbreviando, alcune righe dello Zibaldone sulla lingua universale, solo per ammirare la ricchezza espressiva e la passionalità di Leopardi nel definire quella che oggi chiamiamo lingua di comunicazione, che dovrà essere precisa, esatta, costante. Ma allora sarà “… la più schiava, povera, timida, monotona, uniforme, arida e brutta… la più incapace di qualsivoglia genere di bellezza, la più impropria all’immaginazione… la più esangue ed inanimata e morta… ”.
Esattamente il contrario della lingua della poesia, quella dei sentimenti. Leopardi ce ne da una prova concreta nella poesia dei suoi Canti, o nella prosa delle Operette morali, ma ha anche la coscienza teorica della sua arte che possiamo rintracciare, come ci consiglia Calvino nelle Lezioni americane, inseguendo per esempio nello Zibaldone la traccia del termine vago, vaghezza, o quando Leopardi descrive le situazioni propizie allo stato d’animo dell’“indefinito” o nelle numerose variazioni sul termine “luna”.
Calvino conclude che “il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione”: in questo senso Leopardi poeta può raggiungere Galilei scienziato.
Perché l’italiano possa essere lingua della poesia, dunque lingua viva, alla esattezza ed eleganza della lingua di Galilei, occorrerà aggiungere l’immaginazione e l’umorismo di Leopardi.
Due doti vivacissime del suo animo: le sue fonti letterarie sono in Luciano e nell’illuminismo francese, come è stato messo in evidenza in un famoso congresso internazionale su Il riso leopardiano (1978) che ha rivelato Leopardi come uno dei massimi umoristi italiani. Ci basta leggere le Operette morali, che sono un magnifico esempio di narrativa scientifica, delle vere Cosmicomiche, e tra esse il dialogo intitolato Il Copernico (Opere I, p. 989) uno dei più ricchi di umorismo e fantasia che gioca con le scoperte dell’astronomia personificando il sistema solare. Il dialogo è tra il Sole e le ore del giorno, e l’ora ultima parla con Copernico, il maestro di Galilei. Il Flora commenta (Opere, p. XLII): qui Leopardi “è in un momento di gran vena e ha trasportato poeticamente in una sfera di favola mitica il suo sorridente umore, sulla presunzione umana”. Avevamo incontrato questo stile in Genovesi, e in Stoppani, e se ne ricorderà un secolo più tardi Italo Calvino.

Laura Schram Pighi

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