Puntata 32 – “L’età delle riviste – 2”

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   Puntata 32 – “L’età delle riviste – 2”

    La prima generazione di italiani unitari era chiamata a costruire il proprio futuro e fu costretta a riflettere su questioni di vitale importanza, come abbiamo detto, e anche  sul significato stesso dell’idea di coltura.
Le tante riviste nate in numerose città italiane, furono lo strumento principale di un dialogo che partendo da Firenze si estese a tutta Italia e cercò i propri modelli in Europa, soprattutto a Parigi che divenne il punto d’incontro di un gran numero di artisti di ogni genere. Tutti corrispondenti delle riviste italiane alle quali comunicavano le loro esperienze.
Tra tutti si distinsero alcuni cattolici liberali, alla ricerca di nuovi modelli di religiosità che costituirono un movimento d’opinione, il modernismo”, diffondendolo con una rivista intitolata “Rinnovamento”.
I modernisti appartenevano in gran parte alla borghesia del Nord Italia, una classe sociale in forte espansione, abituata da secoli al dialogo con altre comunità cristiane non cattoliche come i valdesi, o anche non cristiane come gli ebrei. Tutti “nuovi” cittadini italiani chiamati ad impegnarsi nella vita politica nazionale, una nuova classe dirigente.
Il movimento, nato dal recente conflitto tra Stato e Chiesa, suscitò una vastissima adesione nell’opinione pubblica italiana, tanto da provocare la scomunica papale nel 1907, ma questo non ostacolò la circolazione delle idee moderniste in tutto il pensiero religioso italiano quello più aperto alle correnti europee: quello che più tardi negli anni ’20 scelse di schierarsi su posizioni diverse da Roma rispetto al fascismo.
È vastissima la bibliografia sui molti risvolti sociali e politici della questione cattolica, molto meno sulla formazione di quella narrativa di nuovo tipo, una vera “invenzione narrativa” che si sviluppò in quegli anni, trovando nelle maggiori riviste del tempo una ampia risonanza.
Chi riuscì per prima a raccontare la straordinaria esperienza del modernismo fu una donna Antonietta Giacomelli (1857-1949) giornalista, e scrittrice, di famiglia veneta, stabilitasi a Roma, per la sua professione venne in contatto con le maggiori personalità del movimento modernista, da Tommaso Gallarati Scotti ad Antonio Fogazzaro, al vescovo Geremia Bonomelli, tutti cattolici liberali in dissidio con una Chiesa che a loro parere tardava troppo ad adeguarsi alla nuova realtà italiana, e trattava da nemici i suoi figli migliori.
La Giacomelli descrisse questa drammatica crisi delle coscienze in un romanzo in forma di diario, Sulla breccia (1894) decisamente anticonformista per la vivacità dei toni, per il senso dell’umorismo e per la lingua che riflette nei dialoghi il dialetto romanesco e il pastiche gergale usato nei salotti romani. La casa romana della Giacomelli era diventata un salotto intellettuale d’avanguardia, il centro di vivacissime discussioni che ritroviamo qualche anno più tardi riportate fedelmente da un ospite abituale come il Fogazzaro (1842-1911) il protagonista del famoso romanzo Il Santo (1906).
  Qualche anno prima del romanzo della Giacomelli, ma lontano dagli ambienti romani, troviamo il romanzo di Remigio Zena (1858-1917), pseudonimo di Gaspare Invrea, patrizio genovese, alto magistrato, che nel suo Apostolo (1901) “sonda la crisi dell’uomo in lotta tra la terra e il cielo” come scrive un suo attento critico Edoardo Villa.
Ciò che colpisce nel romanzo di Zena, è l’ironia tagliente sui cattolici in contatto per la prima volta col potere politico, raffigurati in personaggi caratterizzati soprattutto dal loro modo di parlare. Pare che Zena scrivendo, suoni uno strumento a più corde: c’è l’italiano medio-alto del borghese colto, quello affettato e latinizzate del clero, il francese tipico del “demimonde”, il tutto sullo sfondo di una danza ungherese di Brahms e di una cantilena ossessiva e conturbante in una lingua sconosciuta, forse slava. La presenza del sogno, della memoria involontaria, dell’irrazionale e del mistero fanno di questo romanzo un documento rivelatore delle tendenze mistiche del tempo e presentano al lettore un apostolo al negativo, come negativa e falsa è tutta la borghesia ipocrita in cui egli vive. L’invito a rovesciare quella realtà decadente viene chiaramente dal romanzo di Zena, da una protesta senza rumore, senza retorica, nella lingua degli esclusi, e delle donne.
Da un angolo della monotona e nebbiosa pianura mantovana, ci viene anche l’opera di uno scrittore pure lui schivo ed emarginato, Alberto Cantoni (1841-1904) di famiglia italo ebraica, autore di Illustrissimo e di un trittico pubblicato nel 1904 intitolato Nel bel paese là… dove una novella Israele italiano ci fa partecipi del problema religioso visto da personaggi che sanno di essere altri, alieni, diversi. Massimo Rizzante presentando nel 1998, l’opera competa del Cantoni, un grande narratore che Pirandello indica come suo maestro di umorismo, ci da il quadro della condizione degli ebrei italiani all’inizio del secolo quando l’”affaire Dryfus” incendiava le coscienze europee.
Chi al contrario preferì protestare con rumore e scandalo fu Antonio Fogazzaro (1842-1911) con un romanzo Il Santo (1906) dallo strepitoso successo. Nella trama di tipo amoroso psicologico, l’autore, uno dei narratori più famosi del suo tempo, ha il coraggio d’inserire una proposta di riforma di tutta la struttura della Chiesa. Fogazzaro partecipò attivamente con articoli e studi, dunque non solo da romanziere, ma anche da studioso, al dibattito sul darwinismo, cioè sui rapporti tra scienza e fede, tenendo numerosi cicli di conferenze in Italia e all’estero cosa che contribuì ad accelerare il decreto di scomunica  per i  modernisti.
Ma non segnò la fine di quella corrente di idee: infatti il dibattito tra i giovani continuò vivacissimo sulle pagine delle innumerevoli riviste. Il “Leonardo”, che dal 1906 si intitolò “rivista di idee” ebbe nei suoi due redattori principali, Papini e in particolare Prezzolini, due agguerriti polemisti presenti nelle polemiche moderniste ancora a lungo, con singole opere come Il cattolicesimo rosso e Che cos’è il modernismo ambedue del 1908. E Bergson fu il solo maestro capace di illuminarli su quelli che loro chiamavano i “problemi dell’anima”.
Per un buon numero di artisti italiani però la religione non fu solo pensiero, cultura, impegno, ma soprattutto poesia, e conservarono a lungo nel cuore quella fiammata che fu il Leonardo: Boine, Jahier, Giuliotti, Pea, Rebora, Onofri fino a Ungaretti, Stuparich, Betacchi, Lisi, formarono una corrente letteraria a lungo messa in margine e dimenticata dalla critica, parallela a quella francese ben più famosa.
L’unica antologia sulla “Narrativa della grazia e dell’esilio” di Ferruccio Mazzariol (I capelli di Sansone, ed. Santi Quaranta, 1989) segnala infatti solo gli autori “religiosi” del terzo Novecento dimenticando del tutto i propri antenati.

Laura Schram Pighi

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