Puntata 41.7 (continuazione) – CAMPI D’ENERGIA UTOPICA: “La città ideale”

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Puntata 41.7 (continuazione) – CAMPI D’ENERGIA UTOPICA: “La città ideale”

Un mondo che assomiglia molto a quello immaginato negli stessi anni da Riccardo Bacchelli (1891-1985) nella sua deliziosa favola filosofica In grotta e in valle, romanzo preistorico che si svolge in tempi così lontani nel passato da sembrare non essere mai esistiti, là dove il narratore cerca di ritrovare soprattutto i segni della lingua di quegli uomini preistorici e si chiede di continuo: come parlavano?
La domanda è ricorrente fin dai primi racconti di viaggi in paesi lontani nello spazio o nel tempo. Di utopismo sia linguistico che topologico si occupa una studiosa Caterina Marrone osservando nei testi inglesi, e in particolare in Orwel, il rapporto tra la lingua degli utopiani e la loro organizzazione urbana, ambedue fortemente tendenti alla semplificazione e alla omogeneità. Infatti la lingua utopica è artificiale, organizzata, logica, dunque falsa rispetto alla lingua naturale, irrazionale perché spontanea e viva. In parallelo la città utopica è razionale ed efficiente, ma artificiale, mentre una città naturale, cresciuta senza una pianificazione, sarà certo più caotica, ma almeno più umana. Se ne ricorderanno Paolo Soleri nella sua Arcosanti costruita in Arizona, (America), e Paolo Portoghesi il massimo architetto italiano visionario quando progettò Dicaia.
Venezia a partire da Casanova nell’Icosameron fino ai futuristi resta per tutti l’esempio di città vera, da contrapporre alla città utopica nel senso di artificiale. Di questo si occuperà Italo Calvino (1923-1985) per quarant’anni della sua breve vita fino a fare di Venezia la capitale delle sue Le città invisibili (1972).
In epoca più recente le utopie si alternano con le ucronie che non sono meno inquietanti: ne troviamo traccia in molti autori neorealisti come Fenoglio o Vittorini che si salvano dalla cruda realtà del loro tempo, fuggendone lontano con la fantasia, o di autori simbolisti come Buzzati o Volponi, immersi nell’immaginario senza poter mai raggiungere una nuova realtà. Tanti frammenti dell’utopia polverizzata.
Una città è anche una convivenza e controllarne la forma determina in gran parte il tipo di società che la abita, con le sue leggi, le sue convenzioni, e la sua lingua. Una città ideale è uno spazio nel quale esperimentare nuove idee. La narrativa italiana di utopia, capace più di altre forme letterarie di riflettere la storia del proprio tempo, è stata in grado di cambiare le idee dominanti e proporne di nuove?
Lo fa, come abbiamo detto, con l’idea di pace, per mettere in crisi la realtà della guerra, ma ciò avviene anche con ognuna delle grandi questioni che travagliavano la società italiana in anni di rapida trasformazione. Succede con la scuola, i ragazzi e l’istruzione, con le donne e il loro ruolo sociale, con la religione e la chiesa, col progresso tecnologico e la scienza o il lavoro, tutto lascia traccia nella narrativa popolare e in parallelo nel giornalismo, e più tardi si rifletterà nel linguaggio delle immagini della “settima arte” il film.
Come scrive Sergio Blazina, acuto indagatore della prosa dell’ultimo Novecento, ricordando il testo di “Quale utopia?” di Calvino, la narrativa di utopia, è arrivata fino a noi per un fenomeno di esplosione del modello originario, di “polverizzazione” dei campi utopici a partire da quello di città ideale.
Ma le idee si diffondono tramite la lingua che le trasmette e allora quando le utopie esplodono e si polverizzano, quale lingua saprà raccontarle?

 Laura Schram  Pighi – (fine)

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