Puntata 31 – “L’età delle riviste – 1”

…a cura di Laura Schram PighiPoesia

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   Puntata 31 – “L’età delle riviste – 1”

  Non è la prima volta che mi chiedo se valga la pena, oggi, di rileggere la letteratura dei primi anni del secolo appena trascorso, quel periodo, dal 1900 al 1914, che si usa indicare come l’Età delle riviste. E ogni volta mi convinco che è necessario conoscere quel periodo perché credo che in quegli anni si trovino le radici di ciò che siamo oggi.
I più giovani tra noi cercheranno notizie su Internet su questa era misteriosa, e i più maturi faranno una certa fatica (salvo rare eccezioni) a ricordare ciò che hanno letto nelle antologie ai tempi del liceo, diciamo dopo il ’45, perché su quel breve ma cruciale periodo interrotto dalla prima guerra mondiale, per almeno vent’anni è sceso il silenzio.
Infatti a livello d’informazione di base, mancava tutto il capitolo proprio sui primi quindici anni del Novecento: si saltava da Manzoni a D’Annunzio, e poi a Pascoli e Carducci, e forse a Pirandello, ma sui legami intellettuali con altri letterati e artisti del loro tempo, e tanto meno con quelli di altre culture europee, non c’era niente. Perché?
Devo al mio primo esame di italiano a Bologna col Prof. Carlo Calcaterra nel 1950 sul suo corso su La Lingua di Guido Gozzano, se ho capito quanto potesse essere eloquente quel silenzio, ma fino al 1955 io mi sono occupata di letteratura francese e per questo venni incaricata dal mio Istituto di pubblicare le lettere dei corrispondenti francesi del Carducci, in preparazione delle celebrazioni, due anni dopo, del cinquantenario della morte del poeta -professore. Mi attendevano due anni di lavoro nell’archivio di Casa Carducci a Bologna, il vero punto d’incontro di tutta la cultura italiana e francese di fine secolo.
Vent’anni dopo nel 1970, per un dottorato ad Amsterdam, il mio direttore di ricerca in base a quella mia pubblicazione del ’57, mi incaricò di dimostrare la presenza della cultura francese anche nella altre decine di riviste fiorite a Firenze e nel resto d’Italia, che Spadolini aveva segnalate fin dal 1948, e mi propose di leggere integralmente la prima di esse, il Leonardo (1903-1907).  
La critica intanto si era dedicata a spiegare l’estetica, la filosofia e l’arte del primo Novecento, una selva di –ismi (positivismo, idealismo, decadentismo, crepuscolarismo, ecc) riservata solo agli specialisti. Qualcuno ricordava persino il nome del più famoso di quei fogli “ La Voce” (1907-1914) che aveva seguito il Leonardo,(1903-1907)  ma per le altre riviste si dava per certo che fossero scomparse. Alcuni critici ricordavano Giovanni Papini, per una famosissima Storia di Cristo del 1921, ma del suo fraterno amico Giuseppe Prezzolini, emigrato in America fin dal 1925, si era persa memoria. Eppure quei due ragazzi, dal 1903 in poi erano stati per quindici anni tra i protagonisti della coltura italiana: che li giudicava troppo giovani per essere presi sul serio, e poi nessuno di loro era laureato, e per di più erano tutti giornalisti…
Per fortuna la Casa editrice Einaudi nel 1960 decise di affidare ad una ricercatrice di razza come Delia Frigessi il compito di colmare quel grande silenzio, curando una serie di ampie antologie su La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste. Il primo volume presenta le prime tre riviste fiorentine tutte iniziate nel 1903, Leonardo, Hermes, Il Regno, con una introduzione di 86 pagine di fondamentale importanza per capire l’importanza dell’intero periodo.
Fu un enorme successo editoriale e si susseguirono le ristampe per molti anni, ma si trattava pur sempre di antologie. Per questo quando io nel 1970 scelsi di studiare la prima di quelle riviste, il Leonardo (1903-1907) che aveva presentato Bergson in Italia in opposizione a Croce e alla sua “Critica” (1903) avevo bisogno di consultare la rivista nella versione integrale. E con essa tutta la corrispondenza tra i due redattori responsabili, e una quarantina di corrispondenti, e le opere nate attorno alla rivista, e una cinquantina di altre riviste di scambio che arrivavano alla redazione.     
  Scusate se vi ho raccontato alcune delle mie vicende di segugio letterario (potrei aggiungerne tante altre…) ma parlarvi della prosa italiana del primo Novecento, mi riporta con nostalgia a quella decina d’anni passati, quando da metà agosto a metà settembre me ne stavo sepolta sotto una montagna di vecchi giornali, da sola, senza bambini tra i piedi e studenti e colleghi, nelle fresche cantine della Biblioteca Marucelliana a Firenze.
Perché in una sola biblioteca e solo in quella città si conservava l’unico esemplare completo della “mia rivista” dopo che l’Arno aveva inondato i magazzini della Biblioteca Nazionale e distrutto tutto l’archivio delle riviste.
Furono anni di lavoro massacrante, ma non avrei potuto pubblicare la mia ricerca nel 1982, senza la fattiva collaborazione, generosissima, di uno dei protagonisti di quella “Età delle riviste” l’ultimo dei i miei grandi maestri, un “giovane” di 90 anni: Giuseppe Prezzolini. Quello che guidò ancora per una decina d’anni fino alla sua morte, le mie indagini sulla narrativa di idee e che mi suggerì di dedicarmi alla “narrativa di utopia”.
Ora mi gioverò di questa esperienza di vita e di ricerca per attraversare rapidamente con voi la  “foresta oscura” della Età delle riviste.  Seguiremo un percorso più facile, lungo sentieri meno pericolosi, senza il peso di troppi libri, per ritrovare i frutti letterari delle due speranze quella nell’arte e nella fantasia e quella nella ragione e nella tecnica, che troviamo unite sulle pagine di quella antica rivista dal nome simbolico di Leonardo.
  Poniamoci subito una domanda preliminare: perché Firenze, tra le molte città culturalmente vive in Italia, si rivelò tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento particolarmente adatta alla nascita di forme collettive di cultura, e perché proprio a Firenze, le riviste, le associazioni, le biblioteche furono più che altrove tanto attente alla cultura francese, che allora significava la cultura europea?
Ai primi del secolo Firenze godeva di due privilegi: quello di continuare ad essere la meta dei pellegrinaggi artistici europei di antica tradizione, e quello di essere singolarmente priva di tradizioni universitarie, al contrario della vicina Bologna che si identificava con la sua millenaria università e con i suoi grandi maestri come Carducci e Pascoli.
A causa della tradizione di liberalità lasciata dalla politica granducale, si era venuta costituendo a Firenze una importante colonia di non fiorentini, tra i quali prevalevano quelli di lingua francese. E tutti si raccoglievano attorno alla figura prestigiosa di Pietro Vieusseux, uno svizzero francese, valdese, commerciante ed umanista che aveva trovato rifugio a persecuzioni religiose, e fungeva da punto d’incontro tra molti connazionali e correligionari. Il suo interesse per le scienze e l’agricoltura, lo aveva spinto a dar vita alla rivista “Antologia” e ad una sua ricchissima biblioteca personale divenuta poi pubblica, che oggi si chiama Gabinetto Vieusseux, centro di numerose riviste europee. L’ambiente culturale fiorentino si trovava così ad essere, tra quelli di altre città italiane, uno dei più aperti alla circolazione delle idee di tutta Europa.
L’altro “privilegio” di Firenze ai primi del Novecento era la mancanza di un rapporto tra università e città: lo studio fiorentino, che pur contava studiosi illustri, viveva una sua vita staccata da quella cittadina, che era di fatto priva di strutture nelle quali inquadrare le sue iniziativa culturali. Per questo a Firenze c’era tanto posto per iniziative collettive di tipo intellettuale come il Gabinetto Vieusseux, e riviste come l’ “Antologia” o il “Marzocco” e poi dal 1903 per cinque anni il “Leonardo”: con la differenza che le prime cercavano di colmare le lacune del mondo accademico attirando a Firenze quello di altre città, mentre il “Leonardo” seguito da “La Voce” , “L’Anima”, “Lacerba”, “Il Regno” erano riviste di combattimento, di critica e di rifiuto della cultura ufficiale.
Una trentina di giovani nati dopo il 1880, riuniti attorno a Papini e a Prezzolini, rifiutarono di studiare all’università, dichiararono la cultura accademica superata, immobile, staccata dalla vita, inutile se non dannosa: cultura che si nutriva di libri e produceva solo libri. Mentre le nuove riviste dovevano essere aderenti alla vita, rapide di produzione e distribuzione e di facile lettura, adatte al dialogo, alla discussione e alla diffusione delle idee a tutti i livelli sociali.
Le riviste dovevano svegliare, colpire e rinnovare la cultura letteraria e artistica italiana collegandola con quella scientifica e tecnica, e dovevano essere uno strumento passionale e personale, per riprendere la tradizione romantica della rivista di idee e di combattimento.

(continua)

Laura Schram Pighi

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