Puntata 27 – “I nuovi maestri”

…a cura di Laura Schram PighiPoesia

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   Puntata 27 – “I nuovi maestri”

  Di poco più giovane di Collodi, e come molti cresciuto alla scuola del giornalismo della sua città, Emilio Salgari, veronese (1862-1911) conquistò i ragazzi con i suoi romanzi di viaggio in paesi lontani per incontrare Sandokan, un nuovo eroe al posto di Garibaldi, ma soprattutto con un ciclo fantascientifico di viaggi avveniristici che cavalcava gli entusiasmi e le paure del suo tempo: Duemila leghe sotto l’America (1888), così come I naviganti della Meloria (1903) o I figli dell’aria (1904) sono stati i libri che hanno insegnato a sognare mondi lontani agli italiani tra Otto e Novecento.
Parecchie generazioni di italiani fino agli anni ’40 del Novecento, me compresa, cresceranno leggendo i romanzi di Salgari, che però solo alla fine del secolo scorso, negli anni ’90, dopo decenni di emarginazione, sono stati rivalutati e studiati a fondo, da un gruppo di valorosi studiosi veronesi. Esiste da allora a Verona  una attivissima Società Salgariana che pubblica una rivista, Il Corsaro Nero, promotrice di un prestigioso premio nazionale per la narrativa d’avventura per la gioventù.
Emilio Salgari, ben noto specialmente in ambiente veronese, resta un caso emblematico di come la critica accademica possa provocare la sparizione dalla editoria di uno scrittore che fu tra i più letti in Italia come e certo più di Jules Verne, suo maestro. Il giudizio negativo puntava genericamente sull’uso “non corretto” dell’italiano non conforme evidentemente al modello manzoniano. Rileggetevi la Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro per aggiornarvi sullo stato della questione, che non è semplice ed è di grande attualità.
E provate anche a rileggere qualche romanzo di Salgari (se li troverete tra i vostri vecchi libri, vi avviso, sono preziosissimi) tendendo l’orecchio all’italiano di oggi, quello della televisione e del film, e vi accorgerete della impressionante modernità della lingua di Salgari, dal fraseggio rapido, rotto, pieno di neologismi e parole esotiche. Si direbbe una lingua già pronta per la “settima arte”, il film, che a Torino ai primi del Novecento, iniziava la sua storia anche grazie a Salgari.
Possiamo affermare che Collodi con Pinocchio e Salgari con Sandokan, furono i veri  nuovi maestri degli italiani unitari, per aver avvicinato l’italiano scritto ancora troppo colto, a quello parlato di tipo popolare, due livelli ancora tanto lontani nella prosa di una Italia che tra Otto e Novecento cercava a fatica di parlare e scrivere in una lingua per tutti.
I due scrittori hanno anche un’ altra caratteristica che ci permette di avvicinarli idealmente. Eredi di una tradizione tipicamente veneta e toscana quella delle novelle e delle favole oltre che dei romanzi di viaggi, servirono da modello ad una schiera di scrittori per ragazzi che a cavallo dei due secoli arricchirono la letteratura italiana di una grande narrativa per la gioventù. Ci furono i collodiani come Luigi Bertelli detto Vamba (1858-1920)  ed Enrico Novelli detto Yambo (1874-1945) che insieme a  Renato Fucini detto Neri Tanfucio, con le sue Veglie di Neri, insegnarono a leggere la realtà con il caustico umorismo toscano.
Ci furono anche i Salgariani, molti tra i veneti e i lombardi, come Luigi Motta, e più tardi Giovanni Comisso, o Ada Negri, che suggerirono alle nuove generazioni come la felicità si  possa raggiungere anche con la velocità delle nuove macchine. Lascio a voi consultare Internet, utilissimo strumento d’informazione sui singoli fatti, meno per capire le idee che li collegano.
Una di queste, tra le più scandalose in un secolo di guerre continue, era l’idea di pace.
Il problema della pace ha già una sua lunga storia in Europa, quando nel 1867 si presenta alla cultura italiana in un congresso a Ginevra alla presenza di Garibaldi, ma la stampa italiana tarda a reagire per una ventina d’anni, fino al 1888, quando leggiamo le recensioni a Vita militare di De Amicis, con una Rassegna dei periodici e un Bollettino bibliografico. Alcune riviste come “La Plebe” o “Cenobium “ di Lugano o “La Pace” quindicinale antimilitarista di Genova, avevano cominciato da tempo a pubblicare nei vari supplementi letterari parecchi testi di narrativa sulla utopia della pace; ma perché il rifiuto della guerra e della vita militare diventasse narrativa di idee in opere che esaltassero il difficile coraggio della pace, occorreva che la delusione della guerra arrivasse a ferire i sentimenti più profondi dei lettori.
Il primo che afferma apertamente i suoi dubbi sulla necessità della guerra e degli eserciti e proponga di abolirli fu uno dei più noti “scapigliati” milanesi Iginio Tarchetti (1841-1869) militare di carriera, che scrisse un romanzo di enorme e perdurante successo Una nobile follia (1866) dove la vita militare è vista tutta come “ordinata all’apprendimento (…) dei modi migliori per uccidere degli uomini e farsi uccidere”. Ne nacque una sorta di terremoto nell’opinione pubblica, e ne venne una risposta di segno contrario due anni più tardi da parte dello scrittore più letto del suo tempo, Edmondo De Amicis (1846-1908) che invece esaltava la Vita militare. Bozzetti (1868) come scuola di vita.
Fu proprio lui a raccontare il lungo travaglio che lo aveva trasformato da ufficiale di carriera in socialista pacifista. Giovanni Spadolini nel suo libro su Gli uomini che fecero l’Italia (Milano Longanesi 1993) ne traccia un attento ritratto, cogliendo le profonde contraddizioni che tormentavano il ventenne piemontese direttore di un giornale “L’Italia  militare” e ci rivela uno scrittore ben diverso da quello facile, un po’ troppo “buonista”, amatissimo dagli italiani, di cui formò per generazioni i buoni sentimenti.
Si tratta veramente di “un altro De Amicis” come lo definisce Gianpaolo Marchi in un articolo del 1995 su L’Arena per ricordare i cento anni della battaglia di Custoza, e uno scritto di De Amicis in un almanacco, intitolato Giù le armi! (1896), dedicato a questa tra le molte battaglie perdute del Risorgimento.
Uno degli studiosi più attenti all’altro De Amicis è Sebastiano Timpanaro in numerosi studi su questo scrittore violento e tormentato, con una famiglia rovinata dalle divisioni politiche ed un figlio suicida. Timpanaro ha portato alla luce opere rimaste inedite come il Primo Maggio scritto nel 1890 ma edito nel 1980, si tratta dello stesso De Amicis che aveva scritto Cuore (1886), ed è anche il primo tra i giornalisti del suo tempo che osò compiere viaggi d’inchiesta per i giornali, divenuti poi libri, come quello in Olanda (1873) dove presenta questo paese come modello di governo libero e democratico.
De Amicis osò anche scrivere Il romanzo di un maestro (1890) e Sull’Oceano (1889) per denunciare il dramma dell’emigrazione in massa di migliaia di italiani verso l’America, così come in Amore e ginnastica si schierava dalla parte delle prime donne che avevano scelto di lavorare fuori casa, nelle suole, sfidando i tanti pregiudizi del loro ambiente. Tutta una umanità emarginata alla quale sentiva di appartenere, della quale si fece interprete.
Viaggi in paesi veri ma lontani, la ricchezza dei dialetti italiani quando si cercava una lingua sola, la emancipazione femminile e la lotta al conformismo ipocrita, la dignità della vita data dal lavoro, la turpitudine della guerra e la ricerca della pace. E tutto questo in una lingua chiara e facile, ben diversa da quella dall’intellettuale elitario del suo tempo.
L’Italia “fatta” da poco con Roma come capitale (1870) doveva  affrontare anche altri problemi per “fare” gli italiani, divenuti nel giro di un secolo scarso, cittadini di un unico Bel Paese, un mondo tutto da scoprire.

Laura Schram Pighi

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