Puntata 34 – “I rinnovatori – 2”

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   Puntata 34 – “I rinnovatori – 2”

D’Annunzio per quei giovani innovatori veniva assimilato al gruppo dei professori dell’Università, tutti ugualmente incapaci di ridere, dunque di educare. E anche di scrivere come commentava Papini, indubbiamente il più “letterato” del gruppo (“Leonardo” 1904) per il quale sempre ”I letterati italiani scrissero cose che non sentivano in una lingua che non parlavano”.
 Per questo e per il gusto romantico che era nell’aria, quello della galleria di ritratti, su modello francese, il “Leonardo” decise di dare inizio ad una serie di maschere, e di ritratti di professori attivi nell’Università di Firenze in quegli anni, accompagnati da articoli di feroce anti accademismo, nella tradizione della “questione scolastica” iniziata un secolo prima e questo sia sulle pagine del “Leonardo”, che in opere parallele. Papini intitolerà “Crepuscolo dei filosofi” (1906) la sua prima raccolta di maschere, e poi fino a “Chiudiamo le scuole” (1919) e “Stroncature” (1920) non farà che ripetere la stessa formula con la maestria di un abilissimo ritrattista.
Le Maschere e i Ritratti pubblicate sul  “Leonardo” sono caricature di intellettuali ben noti in città. Prezzolini in La coltura italiana (1906), si confessa apertamente:
Noi siamo annoiati, più che seccati, arcistufi, e un poco più che semplicemente irritati dalla lentezza e dalla uniformità delle cretinerie che i professori con la marca di fabbrica dello Stato (ci obbligano (…)  a fiutare).
  E questo perché, secondo quegli studenti ventenni, quei professori non riuscivano a “pensare con coraggio” e si nascondevano dietro la cortina fumogena delle citazioni, e l’ipocrisia della obbiettività, immersi, come erano, in un totale conformismo ideologico.
Il Prof. De Sarlo per esempio, scrive Prezzolini, è:
 Monotono nelle lezioni, stinto nei libri, corto di ali in metafisica, deboluccio di gambe in logica, senza immaginazione mitica, filosofica, unisce ad una grande coltura una straordinaria mancanza di originalità (“Leonardo” I,10,p.5)
Questo è solo un esempio del tono della polemica che insiste sopratutto sulla incapacità di comunicare per assenza di fantasia e umorismo.
Se capovolgiamo i tratti salienti dei ritratti possiamo vedere in filigrana come dovrà essere l’intellettuale futuro per la generazione nata dopo il 1888. Abbreviando, il testo è mio:
Il professore universitario futuro dovrà essere originale, avere idee proprie , essere autocritico, coraggioso, brillante, variato, leggero e conciso.
 Quei ragazzi cercavano dunque un educatore che fosse anche un brillante animatore di salotti letterari, maestro nell’arte di persuadere, nell’uso della comunicazione, ossia della lingua, e del giornalismo, del teatro, della poesia.
Un letterato di questo tipo viveva da tempo in città, alla Capponcina con levrieri e cavalli e amanti di lusso, ed era Gabriele D’Annunzio (1863-1938), quarantenne, che si considerava molto più “rinnovatore” dei giovani neo-romantici che facevano la fame nelle riviste, perché per lui il valore di un letterato, dipendeva dalla sua fortuna editoriale, e questa si poteva raggiungere senza “tanti pestiferi–ismi”, come dice lui stesso, con mezzi nuovi, usando le illustrazioni e la grafica in tipografia, o magari anche con la musica e il film, la modernissima settima arte.
Le feroci critiche della classe dei colti, servivano però solo ad aumentare la fama di D’Annunzio che restava per il gran pubblico un modello insuperabile.
Chi seppe indicare il vero punto debole dell’idolo del tempo e sferrò il primo attacco, fu Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952) in una minuziosa analisi della lingua, stile e metrica del poeta, scritta sulla sua rivista “Hermes” (1903) contemporanea al Leonardo. Egli riconosceva la  “malattia dannunziana”, in quella che rendeva D’Annunzio falso di “una speciale falsità (…) Il suo stile diventa tronfio e lungagginoso”. E questo perché quel idolo delle folle, era affetto dalla: “impossibilità del riso, l’assenza di gaiezza, d’umorismo, di scherzosa ironia. Egli maschera la sua inferiorità di una immobile maschera tragica”. In quegli anni il tema della maschera, che nasconde la verità insondabile dell’animo umano, occupava anche Pirandello che nel 1908 pubblicò L’umorismo e Bergson che scrisse negli stessi anni Le rire.
  Ma per riuscire a demolire D’Annunzio bisognava porsi sullo stesso piano dell’immaginifico poeta, che non era quello delle idee, come pensava Croce, né quello della moralità o della cultura come servizio per l’intera società, come chiedevano Papini e Prezzolini con tanti altri, ma solo quello della forma. E per fare questo ci voleva un altro poeta.
Toccherà ad un giovane ancora poco noto, Guido Gozzano (1883-1916), che viveva ai margini delle polemiche fiorentine intorno a D’Annunzio, il compito di demolire definitivamente il bersaglio. Egli, da piemontese, doveva conoscere gli scritti di Thovez, uno dei critici antidannunziani più accaniti, e si assunse il compito di portare a compimento l’opera dei fiorentini e delle tante riviste, per aprire nella letteratura italiana in versi e in prosa una breccia e permetterle così di andare oltre.
Come osservò Montale, Gozzano fu il primo e l’unico dei poeti del Novecento che riuscì veramente “ad attraversare D’Annunzio”.
L’operazione di Gozzano è una sistematica antiletteratura, “un profondo e tenace lavoro di erosione”, come osserva E. Sanguineti, un rovesciamento della forma, della lingua, della tematica dannunziana, e lo fa con l’antica tecnica del rovesciamento parodistico, tipico del carnevale, quello usato anche da Prezzzolini nei ritratti.
Per esempio nel 1907 in I colloqui e altre poesie, egli comincia a ringraziare:
Iddio che avrebbe potuto
Invece di farmi gozzano
Un po’ scimunito, ma greggio,
farmi gabrieldannunziano
sarebbe stato ben peggio
E continua in un sistematico gioco di smitizzazione che non risparmia nulla, così che da allora per i letterati italiani D’Annunzio, non fu più un modello da imitare, ma, cosa ancor più grave, nemmeno un mito da abbattere.
Solo così potrà fiorire il più aggressivo futurismo e quel prezioso decadentismo in poesia e in prosa, che inserirà la coltura italiana in quella europea.

Laura Schram Pighi

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