Puntata 35 – “Tecnica e  letteratura”

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   Puntata 35 – “Tecnica e  letteratura”

  L’ingresso della tecnica nella vita di ogni giorno contribuì ad inserire nell’immaginario collettivo un ritmo diverso, la velocità, così che la lingua come lo stile dovettero frammentarsi per imitarne gli effetti.
Persino l’antico linguaggio della musica aumentò i suoi toni fino a dodici, e si fece rumore e ritmo, il linguaggio delle macchine, e quello figurativo divenne “pittura in movimento” ossia film: D’Annunzio ne aveva intuito subito il collegamento con la letteratura e Pirandello ne studiò a fondo l’estetica.
La velocità richiede uno strumento di misurazione e infatti in questi anni si verificò il trionfo dell’orologio, e il nuovo ritmo divenne sinonimo di liberazione da tutte le schiavitù.
Si è scritto molto sul rapporto tra tecnica e letteratura; vorrei consigliarvi uno studio di Roberto Tessari su Il mito della macchina. Letteratura e industria nel primo Novecento italiano (Milano, Mursia 1975) di piacevolissima lettura, che ci porta  su una delle macchine più cariche di mito e di poesia: il treno, quel mostro d’acciaio sempre tanto amato a partire da fine Ottocento.
  Appena al di là degli Appennini, a Bologna in un clima culturale e sociale molto diverso da quelle fiorentino, insegnava Giosuè Carducci, toscano della Maremma, ateo, repubblicano, con simpatie mazziniane, nominato venticinquenne da  Terenzio Mamiani come titolare di letteratura italiana, il primo dopo l’unità d’Italia sulla cattedra della più antica università d’Europa.
Si deve a Carducci e al suo Inno a Satana (1863) che fece enorme scalpore, scritto per l’inaugurazione della direttissima Bologna Firenze, se iniziò tutto un filone di versi e prose attorno al mito del progresso, e in particolare al treno. Remo Ceserani nel 1993 gli ha dedicato uno studio dal bellissimo titolo di Treni di carta. L’immaginario in ferrovia: l’irruzione del treno nella letteratura moderna. Uno dei primi letterati ad unire la letteratura col treno fu Carlo Lorenzini-Collodi con il suo Un romanzo in vapore del 1856 ma gli esempi sono numerosi.
Tante altre macchine da allora “produssero” letteratura: la bicicletta, l’automobile, l’aereoplano. Salgari fu uno degli interpreti più significativi della sensibilità del tempo, basta ricordare solo alcuni tra i molti titoli del suo fortunatissimo ciclo fantascientifico come I naviganti della Meloria (1903) o I Figli dell’aria (1904). Salgari con Luigi Motta e i tanti narratori “salgariani” seguono da vicino l’amico e maestro Jules Verne che assieme ad altri francesi come il famosissimo Albert Robida formano una famiglia italo-francese dal continuo reciproco scambio d’invenzioni letterarie tutte impegnate a raccontare alle nuove generazioni che si può raggiungere la felicità con le nuove macchine e la loro velocità.
I tempi erano maturi perché qualcuno formulasse una estetica della velocità: la possiamo trovare in alcune opere di Mario Morasso (1871-1938) uno scrittore quasi dimenticato, in particolare nella sua La nuova arma (la macchina) del 1905 (ora con introduzione di C. Ossola, Torino 1994).
Morasso mette in bocca le sue idee a un “essere sovrumano”, il Watman che osserva dall’alto questo nostro strano mondo ed esclama trasecolato “ma che fa quella buona gente? Non si dà mai un istante di pace, corre, corre trafelata e sempre più precipitosa: perché? (,,,) ora l’uomo scambia i mezzi con i fini, identifica la gioia con l’esasperazione del moto e l’infelicità con la lentezza” Morasso in 251 pagine scritte nello stile dannunziano del tempo, cerca di rispondere alle domande del Watman, nato dall’incrocio tra fantasia e ragione, un antenato di Mafarka il futurista di Marinetti e dei moderni fumetti di fantascienza, “un mostro composito, un centauro, una sirena, una fantasima dalle linee rigide e gigantesche non del passato ma dell’avvenire,,,”
Colpisce la capacità visionaria di Morasso così come la sua totale assenza di umorismo, la stessa “malattia” che Gozzano aveva riscontrato in D’Annunzio, quell’umorismo che gli permette di attraversare D’Annunzio, e che esploderà in forme aggressive e violente con l’arrivo del Futurismo a Milano nel 1909.
Il Futurismo, studiato a fondo nelle sue molte sfaccettature, non fu l’unica proposta letteraria per entrare nella modernità e dovette confrontarsi con tante altre proposte meno chiassose ma non meno interessanti già sorte fin dall’ultimo Ottocento come abbiamo visto, e in gran parte concentrate a Firenze intorno alle riviste a partire dal 1903, che si chiamassero superomismo, simbolismo, decadentismo, crepuscolarismo, surrealismo. Ma, come in tutte le avanguardie, il Futurismo ci lascia i suoi maggiori risultati nella poesia, tanto da far pensare che la prosa narrativa sia ben poco rappresentata almeno nella fase iniziale. Uno dei maggiori studiosi del fenomeno, Luciano De Maria nel suo Marinetti e il futurismo (Milano, 1964), si chiede  se addirittura esista una narrativa futurista d’avanguardia diversa dai modelli tradizionali. La ritrova solo in “Mafarka il futurista e gli Indomabili di Marinetti, nel Codice di Perelà di Palazzeschi, in L’Elissi e la spirale di Buzzi, Sam Dunn è morto romanzo futurista di Corra”
Un corpus limitato che si può notevolmente estendere solo se entriamo in zone rimaste in ombra come quelle del “mistero e dell’occultismo, nel regno delle forze ignote e dei simboli arcani” come suggerisce Alessandro Masi (Zig Zag, Il romanzo futurista, Milano, il Saggiatore 1995). Là spicca la figura di Papini, col suo “Tragico quotidiano” (1906) e ancora prima con le raccolte di novelle.
Ma le zone letterarie emarginate non sono certo finite.   

Laura Schram Pighi

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