Puntata 03 – Petrarca (1304-1374)

…a cura di Laura Schram Pighi

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Puntata 3 – Petrarca (1304-1374)

   Se io fossi il sindaco di Verona invece della “sagra del codeghin” o roba del genere, in piazza Bra farei vestire, in un dato giorno, tutta la città in costumi medievali: Cangrande che passeggia ridendo per Via Nuova (la prima strada per soli pedoni in tutta Europa) Dante sempre vestito di rosso, che svicola e si imbosca alla Capitolare e a Sant’Elena, Petrarca che zoppica per un codice di pergamena che gli ha ferito una gamba cadendogli addosso, Boccaccio che passa di fretta dalla città per andare a trovare a Venezia Petrarca e parlare insieme di Dante, e dedica una intera novella (la settima della seconda giornata) a Cangrande, al grande amico e protettore del loro comune maestro, Dante, per quell’unica volta che non è stato ospitale secondo il suo costume.

   Vedreste aumentare la presenza dei turisti stranieri di molti punti in percentuale, in fondo è la formula di Siena e del suo palio: gli europei non vengono in Italia solo per bere o per mangiare i nostri prodotti, ne hanno anche loro, diversi, ma buoni, vengono per immergersi nella nostra cultura specialmente Medio Evo e Rinascimento, quella che loro conoscono solo dai libri ma che possono ritrovare solo qui.

   Non fate caso alle date precise, tra Dante (1265-1321) e gli altri due passa appena una generazione, ma è l’amicizia che segna la loro vita e sostanzia la loro poesia, amicizia tra loro e di loro per Dante. In Dante l’amicizia è una variante dell’amore, quello grande è riservato solo a Beatrice e a Dio; Petrarca (1304-1374) anche lui uomo di un solo amore, vive di amicizia, e Boccaccio (1313-1375) dedica la sua vita a Dante, suo maestro, e a Petrarca che lo ha salvato dalla disperazione. E per tutti e tre la città dell’amicizia è Verona, perché è la città che ha accolto Dante.

   “Ma a te chi te le ha raccontate queste storie?” direte voi. Provate anche voi a guardare “dietro la facciata”, magari con l’aiuto della Vita di Petrarca del Wilkings, a rovesciare i luoghi comuni sul Medio Evo quello tutto buio, tutto guerre, vendette, sangue, tradimenti, violenza. Non è che sia solo una mezza verità messa in giro per interesse di qualcuno?
Per cominciare leggetevi qualche libro di Jacques Le Goff,  ma soprattutto leggete Le lettere di Petrarca.

   Ricordo ancora lo “scandalo” quando, tornata a Verona, ho fatto un piccolo ciclo di lezioni su Petrarca e l’ho basato sulle Lettere. Per il mio pubblico di adulti anche colti, Petrarca era solo e unicamente il poeta di Laura. E basta. Mai sentito dire che fosse anche un uomo politico, il primo intellettuale laico a sentirsi coinvolto nella società del suo tempo, un grande costruttore di pace.

   E uno vive settanta anni (che allora sarebbero come cento oggi) dico io, e diventa famoso in tutta Europa, ed è imitato come modello insuperabile di poesia lirica per secoli fino ad oggi, i suoi sonetti servono per le canzoni più belle per secoli, (altro che Mogol!) solo grazie ad un libriccino di poesie d’amore scritto in italiano? Un capolavoro d’accordo, e tutto il resto che ha scritto? Ma è scritto in latino… Già ma è stato tradotto in italiano e anche bene. E tutte le lettere di Petrarca, una ventina di volumi, Le Familiari, Le Senili, tradotte nell’unica edizione di fine Ottocento, perché sono scomparse dalla cultura generale? Perché sono in latino anche loro e poi perché sono in prosa e Petrarca è un poeta… e chi l’ha detto che per essere grandi bisogna solo scrivere in versi? E che la lingua scelta per esprimersi è la sostanza della poesia?

   Francesco Petrarca, un bellissimo uomo altro un metro e ottanta, un gigante per il tempo, è stato uno dei protagonisti della vita politica del suo secolo, un ambasciatore del Papa, indegno che peggio non si può, che lui lascia perché se ne vergogna, un politico occupato a costruire la pace tra Venezia e Genova… che viaggiava da solo, disarmato, anzi armato solo della sua unica arma, la parola, senza soldi perché era ospite di re e di potenti, il primo europeo ad avere un paio di occhiali, un dono del re d’Inghilterra…

   Credo che a ben pochi letterati italiani sia stata cucita addosso dalla critica una maschera tanto diversa dalla realtà. A imbrogliare le carte è stato Petrarca stesso, bisogna dirlo, che in una famosa lettera, ha cura di presentarsi Ai posteri come lui vorrebbe che loro lo ricordassero. Ma nelle lettere agli amici, al fratello, al Boccaccio, emerge la verità del suo animo, una grande figura morale, pur con tutte le fragilità umane.

   Aveva “imparato” a scrivere lettere proprio nei suoi lunghi soggiorni a Verona, soprattutto dopo aver ritrovato alla Biblioteca Capitolare le lettere di Cicerone, e così, assetato di amicizia e di dialogo com’era, si rivolge al grande scrittore latino come se gli potesse parlare di persona, da uomo ad uomo. E crea un genere letterario, che sarà imitato per secoli in tutta Europa ancora di più dei famosi sonetti.

   Ad un certo punto in viaggio verso Roma, Petrarca ha l’occasione d’incontrare Boccaccio: disoccupato, senza soldi, frustrato, banchiere fallito, brutto, grasso, pieno di reumatismi, che per poco non brucia il Decamerone perché la Chiesa gli dice che è un libro immorale… E Petrarca lo invita a casa sua a Milano per leggere insieme il Decamerone, e anche per studiare insieme il greco. Allora la cultura greca classica si conosceva solo attraverso le traduzioni latine, la lingua greca era in pratica ignorata. E allora i due amici toscani invitano un letterato greco per farsi dare lezioni private, e poi si scambiano i compiti di traduzione assieme a tutte le notizie del giorno, e Boccaccio si trasferisce per mesi a Milano in casa di Petrarca e per regalo gli porta una copia della Divina Commedia, dato che l’originale era andato perduto.

   Io trovo commovente l’amicizia tra Petrarca e Boccaccio: uomini totalmente opposti nelle fortune della vita, ma uniti dalla devozione per Dante. Ci sono dei gesti di Petrarca che ne indicano l’animo: aveva avuto in dono da qualche re del mondo una coperta di vaio, la pelliccia leggerissima e caldissima dell’ermellino, che allora solo i re potevano avere, e la regala a Boccaccio che ha sempre freddo perché possa scrivere più tranquillo. Ma soprattutto gli fa da agente editoriale: lui il massimo scrittore latino del suo tempo, traduce nella lingua che unificava allora l’Europa, il latino, l’ultima novella del Decamerone (la decima del libro decimo) e la manda in dono ai suoi amici potenti per far loro conoscere un suo grande amico scrittore, Giovanni Boccaccio. Che in questo modo diventa per tutta l’Europa colta del suo tempo, il modello della prosa narrativa, un modello valido fino ad oggi.

Laura Schram Pighi

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