Puntata 26 – “I nuovi lettori”

…a cura di Laura Schram PighiPoesia

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   Puntata 26 – “I nuovi lettori”

Umberto Eco, in uno studio del 1979 intitolato Tre donne sulle donne per le donne ricollegandosi al Decamerone di Boccaccio, opera scritta proprio per loro, ci ricorda che tra Otto e Novecento, il romanzo popolare con il suo sorprendete successo di pubblico, è  una forma narrativa  moderna che nasce per un pubblico femminile e si caratterizza per la sua attenzione ai personaggi femminili. Questa galassia sommersa come la definisce Antonia Arslan tra le più acute studiose di un universo letterario solo da poco oggetto di studio, è composta da narrazioni pensate per un lettore della stessa età di chi scrive, e ci porta la voce di chi si sente emarginato dalla società, ma non riesce a sperare e a proporre un mondo diverso nel quale vivere.
Per trovare documentazione letteraria della speranza al femminile, la dovremo cercare in generi diversi da quelli dominanti, in una prosa narrativa marginale come la favolistica o la narrativa per ragazzi. Mi riferisco sempre all’area culturale del Nord Italia, dove le donne e i ragazzi avevano tradizionalmente accesso ad una istruzione di base assicurata in gran parte da ordini religiosi.
A fine Ottocento i giovani sono i nuovi lettori ai quali le donne affidarono il compito di pensare il futuro quando, su modello europeo, esse cominciarono ad interpretare, a proprio favore, il ruolo che la società assegnava loro, quello di escluse. Esse sapevano però da sempre quanta libertà potesse permettere questo ruolo che le esonerava da responsabilità civili, da cariche politiche ed economiche e militari riservate agli uomini, per lasciare a loro l’educazione dei figli e il governo della casa, e provarono allora ad esprimersi con un discorso narrativo diverso da quello dominante.
Investigare nella letteratura degli esclusi, degli emarginati, dei bizzarri, degli eretici può farci scoprire valori nuovi, diversi da quelli fissati dalla tradizione, e accettati da tutti per conformismo.
A fine Ottocento quando per le mutate situazioni sociali, tutte le donne italiane furono investite dal compito di educatrici anche fuori dalla famiglia, esse affidarono alla narrativa educativa e pedagogica, che conosce una fioritura esuberante, o alla favolistica o al racconto di viaggi fantastici, il compito di mettere in guardia il giovane lettore dall’esaltazione della guerra, o della vita militare, per poter scoprire al contrario tutto il valore della pace e sognare mondi senza povertà o ingiustizia, senza guerra e violenza.
Solo i giornali, come abbiamo già visto, potevano ospitare la proposta di un tale mondo alla rovescia, ed erano letti da una popolazione triplicata nel giro di un secolo.
Scrivere per ragazzi, quando l’età del narratore non corrisponde a quella del lettore, significa affrontare problemi stilistici e linguistici di non poche difficoltà, studiati di recente a fondo da un gruppo di studiosi tra i quali uno specialista di ricerche “fuori pista” Vittorio Spinazzola che in Pinocchio & C. La grande narrativa italiana per ragazzi (Milano Baldini e Castoldi 1976) afferma: La narrativa per ragazzi è anche narrativa sui ragazzi, ed è un caso analogo a quello di un altro genere moderno, la narrativa per le donne.
  Non voglio condurvi nella immensa meravigliosa biblioteca che si spalanca davanti a noi, che ci documenta lo sviluppo del pensiero pedagogico europeo e italiano, vorrei solo farvi osservare che per questo popolo di nuovi lettori occorrevano nuovi libri e una nuova editoria, nuovi maestri e una lingua “nuova”, quella cresciuta nei giornali, non nelle accademie.
Numerosi e spesso dimenticati, sono, a fine Ottocento, gli scrittori e le scrittrici per ragazzi che operano dentro una “questione scolastica” che si imponeva con drammatica attualità al momento dell’unità italiana. Dato che nel 1870 l’analfabetismo si estendeva al 74% della popolazione, occorreva pensare un sistema scolastico in grado di dare alle nuove generazioni una identità culturale di tipo unitario. Di fatto alla scuola lo Stato chiedeva di “ fare gli italiani ” e di risolvere molti di quei problemi lasciati sospesi dalle altre tre grandi questioni, quella militare, quella sociale e quella religiosa. Ma non c’erano  le persone preparate per farlo perché molti dei vecchi maestri erano morti nei cinquanta anni di guerre continue e chi era tornato era considerato un vinto.
Si pensò allora di aprire alle donne (a metà salario) la possibilità di insegnare nelle scuole primarie, data la loro esperienza di educatrici in famiglia: pensiamo a De Amicis e alle sue maestrine.
Ma la gente rifiutava un sistema scolastico che sentiva sorpassato nei metodi e nelle persone. Fiorì così, e durò a lungo specialmente a Firenze, una satira feroce contro la scuola, e un diffuso rifiuto anche della istruzione universitaria da parte delle prime generazioni di inizio Novecento.
Nello sfondo di questo clima sociale e culturale al quale si riferisce di continuo, appare a Firenze a puntate su un giornale per ragazzi il racconto delle avventure di un burattino, Pinocchio, figlio di un giornalista Carlo Collodi (1826-1898).
Pinocchio. Le avventure di un burattino, è il ritratto di un italiano unitario, nasce nel 1881 ed esce a puntate fino al 1883 sulle pagine del Giornale dei bambini. Suo padre Carlo Lorenzini Collodi, aveva rinunciato a scrivere i romanzi storici tanto di moda, per fare solo il giornalista, ossia l’escluso di professione, ma è uno dei più colti scrittori per ragazzi del suo tempo. Egli iscrive il viaggio d’iniziazione del suo burattino, nel tradizionale codice narrativo della favola, per smentirlo però subito dopo perché di realtà vuole parlarci.
Esiste una bibliografia critica immensa attorno a Pinocchio, alla quale potete arrivare facilmente e forse già conoscete. Io voglio qui ricordarvi che solo ponendo questo libro straordinario sullo sfondo della storia della società del suo tempo si può valutarne tutta l’importanza per la storia della lingua e della narrativa italiana futura.
La grande novità del racconto sta nell’uso del comico che capovolge la realtà per fare la parodia della scuola, la grande questione di attualità, diventata obbligatoria per i nuovi italiani dal 1864, quella che opprime la fantasia ed educa i futuri italiani unitari al conformismo. Metamorfosi vissuta da Pinocchio, buffo pezzo di legno da catasta, quando diventerà un bravo bambino noioso e triste.
Come ci fa osservare uno degli esegeti più acuti di Pinocchio, Vittorio Frosini in Intellettuali e politici del Risorgimento, (Catania, Buonanno 1961) Collodi non risparmia la sua satira verso molti aspetti di una società che faceva fatica ad accettare, ma non ne propone una diversa, lascia al lettore la speranza di crearne una migliore. Egli lo fa anche in numerose altre sue opere, ora spesso dimenticate, delle quali vi ricordo solo il ritratto al vetriolo dell’uomo politico trasformista l’Onorevole Cené Tanti (ristampato di recente, Pisa, Ets 1996). Questo personaggio, espone agli elettori il suo programma elettorale, tipico del vero rappresentate di uno dei tre paesi di Pinocchio, la città di Acchiappacitrulli, l’Isola delle Api industriose e il paese dei Balocchi, tutto un mondo da rovesciare se si vuole costruirne uno vero.
Pinocchio, come ci dimostra una grande specialista D. Marcheschi, non è un libro facile, né un libro allegro. Il suo punto di forza sta nella lingua parlata, spontanea, sempre dialogante, che passa agilmente da un livello colto ad espressioni dialettali, facendo la parodia dell’uno e dell’altro, per darci una lingua mai mediocre, ben più viva e ricca di quella conquistata a fatica dal franco-lombardo Manzoni, quell’italiano già nato sui giornali.
L’italiano delle opere di Collodi è quello che si parlava allora nelle vie di Firenze, la città che per poco era stata capitale d’Italia, la culla dell’italiano letterario e colto, una lingua che  solo grazie alla mediazione di Collodi e del suo Pinocchio diventerà quella di un popolo grande come tutta l’Italia.

Laura Schram Pighi

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