Puntata 33 – “I rinnovatori – 1”

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   Puntata 33 – “I rinnovatori – 1”

  Contro quali avversari combattevano i “modernisti” e con loro le tante riviste italiane di quegli anni e i molti che intendevano rinnovare la cultura italiana?
La borghesia italiana del primo Novecento era immersa nel più opaco positivismo e conservatorismo mentre la società intera stava trasformandosi da agricola in industriale e si instauravano rapporti nuovi con nuove classi sociali che si affacciavano al potere. Di qui la reazione dei figli di quella borghesia contro il positivismo nel quale erano cresciuti i loro padri, e anche contro il socialismo che veniva da esperienze francesi e stava trovando consensi anche in Italia, tutta una generazione alla ricerca di una nuova spiritualità e di nuovi maestri.
Per restare, come ci siamo proposti, dentro i confini della repubblica delle lettere, dobbiamo ricordare che nei primi quindici anni del Novecento si succedono più generazioni di “rinnovatori” ognuna con una propria idea di futuro.
Aveva cominciato Gabriele D’Annunzio prima a Roma e poi a Firenze preferendo soluzioni elitarie, adorato dal grande pubblico e detestato dalla critica; a lui si era affiancato da Napoli Benedetto Croce con la sua “Critica” (1903) che si rifaceva all’idealismo tedesco, e nello stesso anno scesero in campo anche i giovani delle riviste fiorentine guidati dal gruppo del “Leonardo” (1903-7) seguito dalla “Voce” (1907-1914) che presentavano all’Italia Bergson e la filosofia francese.
Papini e Prezzolini, figure centrali tra gli innovatori, erano atei e anticlericali con frequenti fughe nell’irrazionale e nel simbolismo, in sintonia con i “modernisti” profondamente religiosi ma critici verso il clero, e poi a loro si aggiunsero i “futuristi” (1909-14) da Milano e quelli da Firenze con Papini e “Lacerba” (1910-13).
E non dimentichiamo in questo coro, le voci di quelli che Piercarlo Masini, un attento studioso di quegli anni convulsi, chiama gli eretici in Eresie dell’Ottocento, alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana (Milano, Editoriale nuova, 1978) per i quali solo la scienza e la tecnica, insomma il progresso, potevano portare ad un vero rinnovamento dell’Italia.
Tutti litigavano con tutti sulle pagine delle riviste e anche al di fuori di esse, dando vita addirittura a nuove case editrici e a intere collane di studi per approfondire e sviluppare i loro dibattiti che venivano ripresi in toni diversi anche in un fiume di lettere (oggi quasi tutte pubblicate) che rimbalzavano tra Papini e Prezzolini e tra tutti gli innumerevoli avversari.
In quei primi quindici ruggenti anni del secolo nasce in Italia una nuova poesia che Piercarlo Masini riconosce in Carducci, in Pascoli e in Lucini con una cinquantina di “poeti della rivolta”.
E anche una nuova prosa.
Prezzolini chiamava la propria una “prosa di idee” e ne diede subito un esempio in “Vita intima“ (1902) che segnò la nascita del frammento, cioè dell’opera aperta, uno dei più felici esempi della lingua italiana alle prese col misterioso viaggio negli sconfinati regni della memoria e del sogno.
Da parte sua Papini raccoglie i propri scritti pubblicati sul “Leonardo” e su altre riviste italiane, quelli sul motivo del sogno, e dell’immaginario, e pubblica i suoi primi racconti fantastici costruiti sull’assurdo e il paradosso come “Il tragico quotidiano” (1906) e “Il pilota cieco” (1907). Egli creò così un nuovo stile in grado di esprimere il sogno, di suggerire più che di dire come aveva insegnato Bergson, quello che divenne lo stile di una epoca, pronta a recepire le idee di Freud.
Papini e Prezzolini si erano anche resi conto che se per esprimere la non realtà bastava l’arte del suggerire, per smascherare la non verità ossia la falsità, occorreva esercitare la difficile arte del ridere. E cominciarono a metterla in pratica prendendo di mira la coltura ufficiale, e il mito che più ne rappresentava tutta la falsità: Gabriele D’Annunzio.

(continua)

Laura Schram Pighi

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