Sartori Antonio

…a cura di Giancarlo Volpato

Poesia

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Antonio Sartori

Maresciallo dei carabinieri, istriano italiano espulso, combattente insignito di medaglie al valore militare, internato in un campo di concentramento tedesco, Antonio Sarić nacque a Sarić, nel comune di Dignano d’Istria (oggi Vodnjan) a nord di Pola nell’Istria occidentale, il 25 ottobre 1904. Fu il primo di cinque figli di Antonio e Fosca. Nel villaggio tutti portavano il cognome dello stesso in quanto imparentati tra loro in una comunità di contadini e pastori.
In quella terra, allora di proprietà asburgica, il piccolo crebbe andando a scuola; apprese, oltre all’italiano che era la lingua locale a causa dei secoli veneziani che avevano dominato Istria e Dalmazia, anche il boemo, lo slavo e un po’ di tedesco: lingue che il giovane porterà sempre con sé utilizzandole allorquando gli eventi della vita glielo chiederanno.
Venne la prima guerra mondiale e furono, soprattutto per quelle terre contese, anni infiniti di dolore: sfollati e costantemente costretti a trovare un luogo, gli istriani videro crollare l’impero austriaco. Rientrato dalla Moravia, dove egli con la madre e i fratelli avevano trovato rifugio, ritornò a Sarić: ma il villaggio dell’infanzia era praticamente cancellato e senza vita. Arrivò la pandemia della “spagnola”: si portò via la madre e tre fratelli lasciando, con Antonio, il più piccolo Giuseppe. Era scomparso, in guerra, anche il padre. La famiglia se ne era andata, violentata dalle armi e dal morbo: li raccolse una zia e, a poco a poco, per i sopravvissuti ricominciò la vita. Per aiutare, in quel primo dopoguerra di fame e di desolazione, il sedicenne Antonio trovò lavoro come mozzo su un vapore di linea Pola-Trieste-Venezia. Acquisì pratica marinara e un amore per l’acqua che lo accompagneranno sempre. A 18 anni fu chiamato a Trieste per l’arruolamento nel servizio militare. Chiese di venire arruolato nel corpo dei carabinieri: gli fu concesso, ma dovette italianizzare il cognome; eravamo nel 1922 e il volto di Mussolini era già chiaro all’orizzonte italiano: scelse di chiamarsi Sartori, il cognome che rimarrà per sempre legato a lui e alle generazioni da lui derivanti. La scelta, ch’egli reputava temporanea, avrebbe dovuto aiutarlo negli studi; poi, pure sofferta all’inizio, la sentì come definitiva e Antonio Sartori cominciò la carriera all’interno dell’arma: all’inizio come carabiniere a cavallo a Roma, poi come motociclista, poi sciatore a Ponte di Legno e, quindi, come istruttore; percorse le strade d’Europa come aggregato al servizio diplomatico, imparò una vita che per il resto dell’esistenza rimarrà assai rilevante.
Nel 1936 avvenne la campagna d’Africa ed egli partì come volontario e per tre anni lavorò, come scorta, in Etiopia, soprattutto ad Addis Abeba. Con i gradi di brigadiere, nel 1939 ritornò in Italia e andò a Sarić: trovò qui la moglie, nella persona di Giorgia Birattari che sposò nel medesimo anno, nel mese di aprile e, dopo poche settimane, gli venne assegnata la stazione di Oppacchiasella (oggi Opatje Selo). Poco dopo la nascita, morì il primo figlio nato da quel matrimonio. Il dolore del lutto se ne andò, poco dopo, quando la giovane sposa s’accorse della seconda gravidanza: passò buona parte di questa a Sant’Anna d’Alfaedo; forse, ma non crediamo casualmente, l’amore per Verona e il suo territorio era già nel cuore di Antonio Sartori.
Le mire espansionistiche di Mussolini portarono, nel 1939, all’annessione forzata dell’Albania e, un anno più tardi, all’entrata in guerra con l’invasione della Grecia. Anche il carabiniere fu mandato a combattere: andò proprio in Albania dove rimase per tre anni mentre la moglie, rimasta a Dignano d’Istria, dava alla luce, nel 1941, la figlia.
Furono anni atroci, di dolore e di fatica dove, in quella penisola balcanica, l’esercito italiano precipitò nel dramma e, spesso, nella tragedia. Sartori si comportò da fedele soldato d’Italia ma quando l’armistizio di Pietro Badoglio arrivò (e fu quell’8 settembre 1943) egli, come gli altri, cercò di mettersi in salvo. Camminò, nella paura quotidiana, per cinquanta giorni per arrivare a Dignano; temé, più volte, d’essere fermato dalle pattuglie tedesche poiché le due alternative possibili lo avrebbero comunque danneggiato: se fosse passato come italiano sarebbe stato un disertore, se fosse stato fermato come partigiano slavo sarebbe stato ucciso.
La lunga ed estenuante marcia della salvezza lo aveva letteralmente prostrato sia dal punto di vista fisico sia da quello psichico. Ma la vista della moglie e della piccola figlia oltreché dei parenti lo aiutarono subito a ritrovare forze e fiducia. Comunicato il suo rientro al comando legione di Trieste, ad Antonio vennero concessi una ventina di giorni per riacquistare ciò che aveva perduto; poi fu trasferito alla legione di Verona: cominciò, così, il resto della sua vita.
Venne assegnato, allora in via provvisoria, a Bozzolo, in provincia di Mantova: questo luogo dipendeva dal comando sito nella città veneta. Era il 15 novembre 1943. Ebbe inizio, qui, al comando della nuova stazione del piccolo paese lombardo con il grado di maresciallo, la seconda vita di Antonio Sartori: quella diversa, totalmente votata al bene altrui, nel silenzio del suo lavoro, fedele alla patria che serviva nell’arma più celebre d’Italia e con lo sguardo molto al di là di quello che molti potevano supporre e cioè solamente rivolto ad adempiere a quel servizio che – in genere – si chiedeva e forse si chiede tuttora alle stazioni locali dei carabinieri.
Il nuovo comandante fu accolto assai bene dai sottoposti e dai cittadini anche per la sua disponibilità e per la sua statura morale.
Ma furono mesi tremendi. Destituito il 25 aprile 1943, arrestato e portato sul Gran Sasso, Mussolini sembrò definitivamente estromesso; ma così non fu. Nonostante il nuovo governo di Badoglio, il gerarca era stato liberato e, a Salò, fece nascere la Repubblica Sociale Italiana: Verona divenne la capitale operativa della nuova e non del tutto inaspettata violenza fascista. Sbarcati in Sicilia, gli alleati proseguirono la loro ascesa verso il nord dell’Italia; il Comando liberò l’Arma dei carabinieri da qualsiasi forma di sottomissione all’apparentemente rinato potere mussoliniano, ma così non fu per la parte sotto il controllo di Salò che volle accorpare la milizia come Guardia nazionale repubblicana: ed appariva chiara la pertinenza anche di Bozzolo sotto questa nuova istanza; per il resto d’Italia mutarono le cose anche per l’Arma poiché i carabinieri, fedeli al giuramento al re e alle nuove disposizioni del governo, erano diventati collaboratori attivi della resistenza e della guerriglia partigiana. Così non accadde per i territori del Nord Est mantenuti saldamente dal comando tedesco: i carabinieri di questa zona (Verona, purtroppo, capoluogo) si trovarono chiusi in una tenaglia tra i tedeschi che li consideravano poco affidabili: e accadrà, poco dopo, pure con i partigiani di Tito che li consideravano italiani e, quindi, nemici.
Fu un lungo momento difficile e complicato e il maresciallo di Bozzolo aveva l’impressione di camminare su un’asse di equilibrio.
Uno dei primi personaggi conosciuti nella nuova sede fu il parroco, don Primo Mazzolari: uno degli uomini più grandi della storia italiana di quei tempi. Fortemente antifascista, chiaramente schierato a favore dei partigiani (e non sempre in maniera del tutto nascosta), il sacerdote conquistò l’animo e la mente del maresciallo che, già di per sé, era uomo aperto alle istanze e dallo spirito apertamente attento alle novità che tutti aspettavano dai tempi che stavano per arrivare.
Più volte sospettato dalla milizia tedesca, il maresciallo cercò sempre di attenersi a quanto il suo dovere di comandante la stazione di Bozzolo richiedeva; si scontrò più volte, ad esempio, con la violenza degli ex alleati per i bombardamenti che accadevano a Marcarìa, paese poco lontano dal suo e situato accanto all’Oglio, con l’intenzione di interdire il passaggio tedesco.
Non devesi dimenticare che la collaborazione tra caserma e parrocchia non solo continuava, ma aumentava e tra Sartori e don Mazzolari si stava realizzando una forte intenzione di lavorare sulle medesime intenzioni. All’inizio del 1944 il maresciallo rischiò fortemente d’essere preso dalla violenza delle milizie tedesche che, in quel luogo erano le SS, ancora più terribili della Wermacht.
Andò avanti la collaborazione tra sacerdote e maresciallo; salvarono ebrei, nascondendoli, dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali, misero al sicuro resistenti ricercati, inglesi, fecero di tutto – nell’apparente silenzio della notte o nei momenti ufficiali degli incontri – affinché i loro intenti andassero a buon fine: non risparmiarono alcuna possibilità di aiuto pure svolgendo, nella maniera più assoluta, i compiti ufficiali a loro affidati.
Ma accadde quanto, forse, entrambi si aspettavano e, nonostante non si conoscano i colpevoli, tutto non avvenne casualmente. Il 5 agosto 1944 Antonio Sartori venne arrestato e, questa volta, definitivamente: ugualmente accadde per don Primo per il quale l’intervento del vescovo ebbe risultato positivo di liberazione. Dopo un sommario interrogatorio, il maresciallo venne traferito in carcere a Verona e poi deportato in campo di concentramento in Germania. Per la famiglia ricominciò il calvario del dolore e dell’inconsapevolezza del futuro; la moglie tentò, in tutti i modi, d’intervenire per salvare il marito, ma a nulla valsero le sue disperate corse presso i cosiddetti poteri: neppure l’Arma seppe fare qualcosa di positivo.
Dalla stazione ferroviaria di Porta Vescovo a Verona, il maresciallo fu messo su un treno malfamato dove le persone umane venivano calcolate meno delle bestie. Arrivato a Berlino e, poi, a Fürstenberg il convoglio venne smembrato e Antonio Sartori proseguì verso il campo di Rostock dove giunse al terzo giorno. Da qui, con una marcia forzata, egli e gli altri raggiunsero il campo di concentramento di Warnemünde sul Mar Baltico: i deportati finirono sistemati in baracche fatiscenti dove già alloggiavano prigionieri russi e polacchi. A lui, sottufficiale dei carabinieri, fu affidato il comando di un reparto; obbligatoria fu la lingua tedesca, poca acqua potabile e vita da deportati. Fortuna – ammesso che in una disgrazia simile si possa citare questo sostantivo – volle che il sottocampo di Warnemünde cadesse sotto il comando della Wermacht mentre quello principale di Ravensbruck, guidato dalle SS, fu un olocausto che pochi altri luoghi di concentramento conobbero: dedicato quasi esclusivamente al genere femminile, furono commessi qui i più orrendi crimini che il mondo nazista abbia inventato verso le donne e i bambini. Forte dell’esperienza che Sartori aveva acquisito in gioventù quando aveva fatto il mozzo, seppe sfamare sé e molti altri pescando sulle rive del Baltico quanto potevasi: quel mare si rivelò un vero e proprio vivaio di mitili che aiutarono quei deportati a sostentarsi. Arrivò l’avanzata delle truppe russe nel campo e lo liberò: era il 30 aprile 1945.
Trattenuto dalle forze alleate sino alla metà di settembre di quell’anno, il maresciallo fu curato dalla Croce Rossa svedese; poi, messo su un treno, arrivò in Italia e giunse a Bozzolo nella prima settimana d’ottobre: ma non c’era più la sua famiglia trasferitasi a Dignano; e in quell’Istria stava accadendo quanto poi la storia ci ha raccontato. Le truppe titine, la violenza e l’odio dei nuovi arrivati contro gli italiani non conobbero limiti. Andò a prendere la moglie e la figlia, tentò di riportare i parenti. La straordinaria capacità dell’uomo si rivelò ancora vincente. Fu richiamato dalla legione di Verona, gli venne affidato temporaneamente il comando della stazione di Montecchio Maggiore nel vicentino e lì, nel 1946, nacque il figlio Lorenzo (autore del libro su di lui: v. Bibliografia). Al maresciallo venne offerta la possibilità di restare in Istria ma la slavizzazione e le ferocie di Tito non gli lasciarono dubbi: l’esodo degli italiani fu tremendo e, spesso, tragico. Nell’atrio d’ingresso di quella che è, oggi, la sede universitaria di Verona, i fuorusciti trovarono scampo e così fu anche per alcuni parenti dei Sartori.
Assegnato al comando della stazione di Pescantina, il maresciallo conobbe pure la tensione della cosiddetta zona A di Trieste del 1954. Ma il Memorandum di Londra di quell’anno affidò perennemente la città giuliana all’Italia. Così Antonio Sartori ritornò a Verona dove gli venne affidato il comando della stazione di Verona Est la cui sede era in quel luogo che fu infame e tragico, vicino al Teatro Romano, un tempo sede di morte di partigiani e antifascisti lasciato perire nei sotterranei dai nazisti tedeschi; poi, la sede si trasferì in via Colonnello Fincato in Borgo Venezia. Portò la sua residenza al Porto San Pancrazio e andò in pensione nel 1960. Ritornò, ogni tanto, nelle terre della sua infanzia ma Verona rimase – come fu sempre – il fulcro centrale della sua vita.
Se ne andò il 3 gennaio 1989, all’ospedale di Zevio dov’era stato ricoverato. Dal foglio matricolare risulta che Antonio Sartori ottenne otto decorazioni per meriti di guerra, il cavalierato della Repubblica e una splendida decorazione dell’arma cui appartenne.
Tra i molti buoni ricordi citiamo, almeno, il docufilm Una piccola inestimabile memoria, girato a Bozzolo e lì proiettato il 13 settembre 2017 (poi su Rai Storia) con il violino di Auschwitz di Oskar Tänzer nascosto a Bozzolo nel 1938 e salvato da Antonio Sartori, don Mazzolari e il podestà Giovanni Rosa.

Bibliografia: Bruno Bignami, Don Primo Mazzolari, parroco d’Italia: “i destini del mondo si maturano in periferia”, Bologna, EDB, 2014; Antonio Sanfrancesco, “Io, ebreo, salvato da don Primo Mazzolari”, “Famiglia cristiana”, 26 genn. 2017; Lorenzo Sartori, Antonio Sartori. Il maresciallo di don Primo, Verona, Mazziana, 2020; Renzo Cocco, Il maresciallo Sartori eroe del quotidiano, “Verona fedele”, 27 sett. 2020, p. 19; Giorgio Tunis, Il maresciallo istriano amico di don Primo Mazzolari, “Note mazziane”, LV (2020), pp. 178-179; Maria Vittoria Adami, Il maresciallo di don Primo Mazzolari, “L’Arena”, 2 nov. 2020, p. 44; Giorgio Vecchio, [Recensione del libro di L. Sartori], “Impegno: Fondazione Primo Mazzolari”, nov. 2020, pp. 98-99; Marco Roncalli, Il maresciallo Sartori, Mazzolari e la resistenza, “Avvenire”, 17 mar. 2021, p. 21.

Giancarlo Volpato

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Foto dal libro “Antonio Sartori – Il maresciallo di don Primo” di Lorenzo Sartori

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