Aldegheri Carlo

…a cura di Giancarlo Volpato

Poesia

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Carlo Aldegheri

 

Calzolaio, resistente, anarchico, Carlo Aldegheri nacque a Colognola ai Colli il 22 febbraio 1902; figlio di Mosè e di Maria Scartozzoni, egli era il quinto dei dieci figli della coppia (secondo un’intervista rilasciata poco prima della morte, Carlo disse di avere avuto quattordici fratelli). Crebbe in una famiglia molto povera e dalle conoscenze sulla sua vita – recuperate solo grazie ad un paio d’interviste rilasciate in vecchiaia, ma soprattutto dopo la sua scomparsa e tramesse dalla moglie – trascorse un’infanzia ed una fanciullezza all’insegna della violenza e del disorientamento sociale. Aiutava i genitori nei lavori della campagna; frequentò solo le elementari, ma durante l’adolescenza superò i confini della temperanza e della legalità: dai furti campestri a quelli più avventurosi, quale l’assalto di un treno-merci, che gli procurarono severe punizioni.
Verso i diciotto anni, per quel giovane piuttosto difficile, cominciarono a cambiare molte cose: dimenticherà i furti, non sarà più il ragazzo disordinato; durante la prima guerra mondiale, nonostante la giovane età, trovò lavoro come sterratore dell’esercito. Subito dopo s’iscrisse al Partito Socialista Italiano e cominciò a capire che i lavoratori avevano diritto ad una vita meno tribolata e che dovevano essere retribuiti in maniera giusta senza piegarsi al volere del padronato che, a quell’epoca, era molto sfruttatore.
Fu chiamato, alla fine del conflitto, al servizio militare obbligatorio: rifiutò soprattutto perché – ma non accadrà per tutto il resto della sua vita – non avrebbe mai voluto scendere in battaglia contro qualcuno. Stava arrivando il fascismo e le minacce ai contrari stavano prendendo piede anche nel paese di Colognola ai Colli: egli fu uno dei primi a subirle. Decise, quindi, di espatriare nel 1922. Passò la frontiera a Cesana Torinese, giunse in Francia, in Costa Azzurra e vi rimase, nascosto, per un anno e mezzo. Iniziò a fare il calzolaio, mestiere che rimarrà suo per sempre. Nel 1924 si trasferì a Parigi: per Carlo Aldegheri cominciò davvero un’altra esistenza. Durante una manifestazione antifascista di fronte al Consolato italiano nella capitale francese fu picchiato e colpito da un proiettile – sparato da guardie italiane – che lo ferì al polmone. Sarebbe deceduto se non fosse stato salvato dalla polizia francese.
Ripresosi dal male, venne internato nelle carceri della Santé e di Fresnes, nella capitale; vi rimase nonostante non avesse commesso crimini ma per avere partecipato alla sommossa. Venne, più tardi, rilasciato poiché considerato prigioniero politico e, come tale, obbligato ad uscire dalla Francia.
Arrivò in Spagna nel febbraio 1934, adottò uno pseudonimo, tale Aldo Peruzzi. Si fermò qualche mese a Barcellona, ma poi – a causa della situazione politica – si trasferì a Sabadell nella provincia della Catalogna, centro importante per l’industria tessile e per le banche. Qui conobbe Anna Canovas Navarro, nota come Anita: anarchica come lui, protesa sempre contro qualsiasi forma di dittatura; nacque una figlia che fu chiamata, certo non casualmente, Primavera. Il nome di Carlo Aldegheri – come pure quello del suo pseudonimo – erano molto noti tanto che la polizia politica del Ministero dell’Interno di Roma sapeva perfettamente come egli si muoveva.
Nel luglio 1936 iniziò la guerra civile spagnola e i due Aldegheri non potevano tirarsi indietro; egli prese parte alle operazioni antifranchiste sul fronte aragonese ed ella, continuando a lavorare nella più importante industria tessile della città, divideva il suo tempo come ausiliaria del pronto soccorso, come volontaria in qualsiasi evento.
Nonostante la guerra, nonostante le difficoltà, Carlo Aldegheri non dimenticava mai la sua Colognola ai Colli: scriveva ai genitori (rimangono le lettere), chiedendo come andasse. Egli era convinto – e lo si legge in queste missive, quasi tutte intercettate dalla polizia fascista italiana – che sulla Spagna stesse per arrivare una “nuova aurora”; si sbagliò profondamente poiché i franchisti presero il potere con la medesima determinazione di quel fascismo italiano ch’egli non aveva mai voluto. Nell’estate del 1937 fu fatto prigioniero dai falangisti: aiutato dal coraggio e dalla sorte, riuscì a fuggire e a ritornare a combattere in Aragona, sino al marzo 1939 quando il fronte antifascista venne sconfitto e Francisco Franco, il caudillo, prese il potere.
La famiglia Aldegheri si accodò alle file dei profughi verso la Francia; la perdita dell’indice della mano destra fece passare Carlo come invalido e riuscì – nonostante i divieti espressi – ad entrare nella nazione confinante. Qui Anita dovette lavorare – quale profuga – in una fabbrica di materiali bellici, poi in altre industrie; suo marito, invece, fu inviato al campo di concentramento per rifugiati di Argelès-sur-Mer, vicino a Perpignano, poco lontano dal confine italiano. Anarchico riconosciuto, venne recluso assieme a Mario Borsaro, un amico d’infanzia di Caldiero che aveva, più o meno, fatto gli stessi percorsi di Aldegheri. In seguito venne trasferito in un altro campo, a Gurs, sul versante atlantico dei Pirenei nelle Alpi francesi e, poi, a Dunkerque, nel nord, a scavare trincee: era uno della “Compagnia di lavoratori stranieri” inviati ai lavori forzati. L’invasione nazista tedesca costrinse i rifugiati a fuggire e a camminare fino a Rotterdam, in Olanda. Da qui, assieme agli altri deportati, finì al campo di concentramento tedesco di Żagań in Polonia dove rimase dal giugno 1940 al gennaio 1941. In seguito ad un accordo tra Hitler e la Croce Rossa Internazionale, riuscì a tornare in Francia, a Reims, dove visse per alcuni mesi fino a quando, nell’agosto del medesimo anno, i francesi lo estradarono in Italia. Fece il percorso a nord dei confini ed entrò dal passo del Brennero: qui venne preso in consegna dalla polizia di frontiera e trasferito al carcere degli Scalzi a Verona dove rimase per quaranta giorni. Condannato al confino per cinque anni dalla commissione provinciale, il 3 settembre 1941 fu tradotto nel carcere di Gaeta e, infine, sull’isola di Ventotene. Qui, tra gli altri, ebbe, come compagno di confino, il socialista Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica Italiana.
Dopo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini, in seguito a insistenti pressioni, i confinati antifascisti furono poco a poco liberati dalle isole; non fu così per gli anarchici e gli stranieri – tra cui anche Carlo Aldegheri – che, in agosto vennero trasferiti da Ventotene al campo di internamento di Renicci di Anghiari, in provincia di Arezzo: qui le condizioni erano disumane. In quel desolato luogo – e avverrà pure, più tardi, durante la Resistenza – egli incontrerà Giovanni Domaschi (v. questo Sito) assieme ad altri che spesero e spenderanno la loro vita contro il fascismo e contro qualsiasi forma di dittatura. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la conseguente occupazione nazista della penisola, i detenuti a Renicci si resero protagonisti di alcuni episodi di rivolta e di un’evasione di massa. Esattamente il giorno successivo, in uno di questi momenti di tensione, Aldegheri fu ferito ad un braccio dagli spari di un sorvegliante e portato all’ospedale; l’arto destro era il medesimo sul quale era stato colpito in Spagna nella guerra contro i franchisti. Secondo le testimonianze dei compagni di lotta, il veronese era sempre in prima linea lottando con vigore contro qualsiasi forma che ritenesse lesiva della libertà.
Ripresosi dalle ferite e dimesso dal nosocomio, al momento di rientrare in prigione, Aldegheri tentò di fuggire, ma cadde dal secondo piano, si fratturò un gomito, fu catturato, percosso e riportato in cella. Nessuno, sempre secondo le testimonianze – soprattutto della moglie – ebbe pietà di lui.
Il 2 dicembre di quel 1943, grazie ad un bombardamento aereo degli Alleati nel carcere di San Benedetto ad Arezzo dov’era stato mandato, fu aperta una breccia che permise al Nostro e ad altri, di fuggire. Aldegheri camminò, rischiando quotidianamente la vita e affrontando pericoli, sino a Caldiero, in provincia di Verona: là ritrovò la famiglia.
Anita, sua moglie, ricominciò a lavorare presso l’industria tessile Tiberghien, a S. Michele Extra mentre lui, essendo ritornato nella sua Verona dove la lotta antifascista era molto attiva, prese contatto con il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), nella Missione Rye diretta dal professor Francesco Viviani, di cui facevano parte anche alcuni libertari, con il compito di organizzare la Resistenza tra Caldiero e San Bonifacio della quale Aldegheri fu parte rilevante.
Fu nuovamente arrestato il 10 settembre 1944 e incarcerato nel campo di concentramento di Bolzano con matricola 8062: da qui partivano tutti per i lager della morte in Germania e in Polonia. Il Nostro sopravvisse grazie alla sua abilità come calzolaio; a chi lo accusò, più tardi, di avere lavorato per i tedeschi, egli rispose sempre che la vita valeva poiché l’avrebbe consumata lottando e non riparando scarponi o stivali. La “scelta” di lavorare per i nemici non mancò di destare sospetti fra gli altri internati; tuttavia, grazie proprio a questa “alternativa”, riuscì ad evitare la deportazione nei campi di sterminio nazisti ma, anche, proprio per il lavoro svolto, aiutò gli sfortunati a trovare razioni di cibo per sfamarsi. Nel lager di via Resia rimase sino al maggio 1945. In definitiva, Carlo Aldegheri, con situazioni che lo segnarono profondamente, passò – nella sofferenza delle carceri e dei campi d’internamento – nove anni e nove mesi.
Dalla fine della guerra in poi, tutta la famiglia ricominciò a ricostruire la propria vita. Anita si recava al Tiberghien e Carlo continuava la sua professione di calzolaio, nel suo paese d’origine, Colognola ai Colli. L’Italia di quegli anni era in profonda miseria e gli Aldegheri passarono dei periodi in estrema povertà a causa dell’abitazione ridotta assai male, per colpa dei bombardamenti precedenti, e a una vera difficoltà finanziaria. Nel medesimo tempo egli era molto attivo come rappresentante dell’Uvam (Unione veronese antifascisti militanti).
L’indole piuttosto forte del Nostro non tardò a farsi risentire. Il 23 luglio 1950, partito da solo, egli sbarcò nel porto di Santos, nello Stato di San Paolo in Brasile. Fu l’ultimo passo della sua vita. Dormì all’addiaccio, fece il muratore e qualsiasi altro lavoro finché non fu in grado di affittare un appartamento in un quartiere della città. Riuscì ad impiantare una piccolissima azienda dedicandosi alle scarpe. Lavorò con una resistenza inaudita per mandare il denaro alla moglie e alla figlia affinché lo raggiungessero: ciò avvenne il 14 marzo 1952 e la famiglia si traferì nella città di Guarujẚ sempre nello stato di San Paolo.
I coniugi si dedicarono alla fabbricazione di calzature, principalmente sandali per i turisti: l’azienda s’ingrandì ed essi si stabilirono nella città prescelta; la figlia, che aveva sposato un italiano preferì ritornare e lasciò il Brasile. Qui, gli Aldegheri si misero subito in contatto con i compagni anarchici, cominciarono a frequentare centri di cultura politica. L’attività lavorativa creò buoni guadagni; ciononostante la vita dei due era molto modesta: molti dei loro introiti andavano a finanziare l’attività dei centri di cultura politica e, soprattutto, erano indirizzati ad aiutare i poveri, i diseredati. Famiglia affermatasi per la solidarietà quotidiana, acquistò una macchina da stampa, un terreno nei pressi di Guarujẚ: essi donarono tutto al movimento libertario brasiliano.
Carlo Aldegheri cominciò ad essere conosciuto: un libro di un brasiliano dell’epoca sulla nascita dell’anarchismo libertario lo citava come un grande; venne chiamato a congressi internazionali, si batté per la liberazione della Spagna dal regime dittatoriale di Franco, pubblicò un opuscolo nel quale cercava di dare suggerimenti per arrivare ad un anarchismo pratico e concreto: per lui – ma anche per la moglie – non aveva senso discutere di teorie anarchiche se non ci fosse stato modo per realizzarle. Nell’aprile 1964, in Brasile s’instaurò una dittatura militare guidata da Humberto Castelo Branco e le idee anarchiche si spensero immediatamente. Anche il Nostro tacque.
Carlo Aldegheri si spense, a 93 anni, nella sua città brasiliana, il 4 maggio 1995. A suo nome rimane una scuola elementare e un centro di studi politici sempre a Guarujẚ, il Nucleo de Estudios Libertarios “Carlo Aldegheri”. La moglie continuò ad aiutare e contribuì ad acquistare quel Centro studi che porta il nome del marito. Anita morì all’età di 108 anni il 31 marzo 2015.

Bibliografia: Berardo Taddei, Veronesi nella Spagna repubblicana, Verona, Cortella, 1976, pp. 15-20; Edgar Rodrigues, Lavoratori italiani in Brasile. Un secolo di storia dell’altra Italia, Salerno, Galzerano, 1985; Dario Venegoni, Uomini, donne e bambini nel lager di Bolzano. Una tragedia italiana in 7982 storie individuali, Milano, Mimesi, 2004, p. 52; Giorgio Sacchetti, Renicci 1943. Internati anarchici: storie di vita del Campo 97, Roma, Aracne, 2013, pp, 34-36, 82-83; Andrea Dilemmi, Schedare gli italiani. Polizia e sorveglianza del dissenso politico, Verona 1894-1963, Sommacampagna, Cierre, 2013; Due continenti, quattro paesi. Carlo Aldegheri: vita di un anarchico da Verona al Brasile. Edizione italiana a cura di Andrea Dilemmi con un contributo di Natale Musarra, Sommacampagna, Cierre, 2021 (Il volume contiene la traduzione degli scritti in portoghese e del curatore).

Giancarlo Volpato 

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