Da Lisca Alessandro

…a cura di Giancarlo Volpato

Poesia

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Stemma della Famiglia Da Lisca

Ingegnere, reggente la Soprintendenza per le Belle Arti, marchese, Alessandro Da Lisca nacque a Verona il 21 agosto 1868. Discendente da una famiglia nobile di origine fiorentina, proprietaria di terreni con una villa molto importante a Formighedo (tra i comuni di Lavagno e S. Martino Buon Albergo), egli era figlio di Giovanni e di Noemi Sega. Si laureò in ingegneria presso l’università di Padova nel 1893 ed iniziò subito la professione nell’ambito del restauro che rimarrà, per tutta la vita, il vero grande amore dei suoi interessi. Uomo molto attento, dotato di grande intelligenza e di una straordinaria capacità di occuparsi della storia riguardante i suoi interventi, Da Lisca cominciò a collaborare con l’abate Lorenzo Scapini, figura di primo piano nell’ambito della cultura artistico-religiosa, al ripristino della chiesa di San Lorenzo: e fu, subito, un grande significato quello di essersi occupato di un ambiente prestigioso nell’ambito e nella storia scaligera. Offrì, dopo, le sue attenzioni alla chiesa di Palazzolo di Sona. La strada, certamente scelta, era molto chiara per il giovane ingegnere il quale, anche se conscio della sua origine marchionale, non fece mai pesare il fatto di appartenere ad una famiglia nobile molto nota nella storia veronese.
Nel 1900 fece parte della terna che diresse e dette avvio alla Fiera di Verona: la sua figura era già nota.
Entrò quale funzionario nella locale Soprintendenza artistica già dal 1902: e la sua vita non si mosse da questo incarico che lo vide tra le figure più rilevanti nella storia del primo Novecento veronese per l’azione di tutela da lui svolta in maniera indefessa e senza remore di sorta.

Firma originale di Alessandro Da Lisca

L’esordio avvenne presso l’Ufficio regionale per la tutela dei monumenti a Venezia dove coadiuvò Massimiliano Ongaro, architetto e restauratore peritissimo, allievo di Camillo Boito al Politecnico milanese. Per Alessandro Da Lisca, la cui strada era già disegnata, quella presenza fu un avvio di sicura bravura. All’ingegnere veronese fu affidata la direzione del restauro di S. Maria Antica dove, già dal 1893, il Genio civile aveva messo in cantiere un restauro per liberare la chiesa dalle superfetazioni moderne. La strada tra lo studio storico dei manufatti e l’archeologia era abbastanza vicina: il marchese ne fu attratto e si occupò anche di quest’ultima.
Con decreto ministeriale del 28 giugno 1908, grazie alle sollecitazioni dello stesso Boito e di Carlo Cipolla, a Verona venne istituita la Regia Soprintendenza delle Arti che aveva competenza anche sulle province di Vicenza e di Mantova. Da Lisca la diresse dal 1° luglio 1910 mettendo a tacere, anche, le possibili fratture tra l’aristocrazia scaligera e la gestione del patrimonio artistico. Egli rimase, sempre, all’interno dell’Istituzione in qualità di reggente, non riuscendo mai a conseguire il ruolo della dirigenza. Nonostante il sostegno di molti uomini di cultura, non superò mai l’esame di concorso pure avendo avuto, tra i commissari, Camillo Boito.
Egli fu sempre scrupoloso nel fare conoscere – attraverso gli studi – i suoi interventi di restauro: cominciò le collaborazioni con i giornali (“Verona fedele”, ma soprattutto “Madonna Verona”) i quali pubblicavano i suoi scritti arricchiti, oltre che dagli interventi ristrutturali, da studi storici, da saggi sulla formazione dei manufatti che andava dalla conformazione architettonica alle malte, dalla tipologia dei materiali sino alla conoscenza della struttura nel suo insieme. Uscirono, così, i suoi primi interventi sulle sculture del castello di Stenico, nel Trentino, sulle scoperte archeologiche nella provincia veronese. La sua fama si andava allargando e, nel 1906, l’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona (allora Accademia di Scienze Commercio ed Arti) lo accoglieva tra i suoi membri effettivi: qui, egli assolse, in due trienni diversi, anche la carica di assessore. Cominciavano ad arrivare, altresì – e proprio grazie alla sua perizia e alla sua sempre grande correttezza cui si accoppiavano la coscienziosità, la signorilità del carattere e la sua indubbia capacità di studioso – altri incarichi in prestigiose commissioni locali quali quella censuaria comunale, quella della Commissione conservatrice dei monumenti e quella dei musei civici.
Diresse numerosi interventi su complessi monumentali veronesi in linea con quelli che erano gli obiettivi dell’arte del restauro di allora, cioè il ripristino dell’assetto originario: tutto questo appare in chiaro contrasto con le tesi attuali di rispetto del monumento nelle sue articolate stratificazioni.
Da Lisca fu, probabilmente, tra i maggiori “appassionati” dell’Arena, il manufatto per eccellenza di Verona. Quando, nel 1908, l’amministrazione comunale pensò di fare passare accanto al monumento un tram elettrico, egli s’alzò, con animo preciso e accalorato, mettendo in risalto i pericoli che questo avrebbe provocato all’ala dell’Arena: e così, infatti, ottenne che venisse spostato quello che avrebbe provocato ulteriori disagi e pericoli ad un manufatto che gli uomini e il tempo non avevano affatto risparmiato; fu lui, infatti, a raccontare – cosa poi supportata dalle indagini storiche – come l’ala rimasta fosse stato l’ultimo pezzo sopravvissuto a terremoti ma anche ad angherie, quali l’utilizzazione della parte esterna come cava di pietre, come utilizzazione per ulteriori manufatti sorti dall’epoca di Gallieno, nel III secolo, attraverso Pipino nel 798, gli Scaligeri, la Repubblica di Venezia finché, finalmente, nel XVI secolo qualcuno comprese che l’Arena non doveva essere più toccata. Più avanti negli anni, il marchese piangerà lacrime di dolore dopo avere visto (ed era il 1931) le manomissioni interne dell’anfiteatro per gli spettacoli estivi.
Poco dopo l’inizio del secolo, sempre nell’ottica del ripristino originario, egli liberò le absidi di San Fermo Maggiore (1905-1909) con una poderosa opera che trasformò la connotazione della chiesa superiore e di quella inferiore, dove vennero messi in luce importanti quadri pittorici. Recuperò l’assetto originario della chiesa dei santi Quirico e Giulitta, che fu parrocchia sino al 1806, allorquando le disposizioni napoleoniche, ne decretarono la fine. Scoprì e li studiò con un appropriato saggio, i balnei romani presenti a Verona: li collocò sulle due rive dell’Adige e ne descrisse le funzioni e le forme. Si occupò per il restauro della statua equestre di Cangrande Della Scala.
Pochi anni dopo – siamo all’inizio della prima decade del Novecento – Alessandro Da Lisca riportò allo splendore originario la chiesa di S. Teuteria e S. Tosca che era stata pressoché interrata nella costruzione del tempio dedicato ai SS. Apostoli. Lo studio ch’egli apportò, oltre al lavoro di grande saggezza storico-architettonica, rivelò – non solo al mondo dei credenti – l’origine di quel luogo sacro risalente nientemeno che al IV secolo e, poi, per più volte, rimosso e rifatto. Oggi questa chiesa mette in risalto un ipogeo somigliante a quello di Galla Placidia a Ravenna, le spoglie mortali delle due sante vergini, la pianta a croce greca e la consacrazione da parte di Annone, grande vescovo veronese, nel 751. Anche in quest’occasione, Da Lisca mise in luce la conoscenza storica di quanto cadeva sotto le sue mani. Non trascurò, nello stesso periodo, di occuparsi della facciata di S. Maria della Scala.
Straordinario amante della sua città, il marchese non poteva dimenticare e non porre le sue attenzioni – sia come studioso sia come funzionario della più importante Istituzione per le opere d’arte veronese e delle province limitrofe – verso le cinte murarie a cui, volenti o nolenti, ciascuno di noi e ciascun visitatore esterno non può non accostarsi: esse contornano tutta la città; a questi straordinari manufatti egli dedicò degli studi importanti, descrivendone la storia, occupandosene materialmente e non risparmiando le critiche verso chi governava Verona, assai poco attento alla loro rilevanza ma assai sollecito a sbrecciare in continuazione una costruzione solidissima e storicamente ineccepibile per creare passaggi interni. Quando Da Lisca dette alle stampe il suo lavoro a puntate (tra 1914 e 1916), l’integrità del sistema edificatorio veronese era già stata largamente intaccata: quella mania distruggitrice, com’egli la definì, avrebbe dovuto arrestarsi; se egli, oggi, fosse presente, probabilmente non vorrebbe neppure vedere. Tutti gli studiosi dell’epoca, da Antonio Avena a Giuseppe Gerola, da Carlo Cipolla a Luigi Simeoni furono con lui ricordando che Michele Sanmicheli, uno dei sommi artisti di cui Verona può gloriarsi, si erano avvicinati alle fortificazioni apportandovi la loro capacità nel massimo rispetto dell’integrità.
Incombeva la guerra, in quegli anni: e sopra i monumenti avrebbero potuto cadere le bombe. Se ne occupò affinché nessuna di queste potesse apportarvi distruzione: si adoperò per le Arche Scaligere, per il protiro di San Zeno, per quello del Duomo, per il portale di Santa Anastasia, per gli affreschi di Pisanello; si rivolse pure a Vicenza, a Mantova, a Peschiera: in ciascun luogo apportò rimedi, quali ovviamente si potevano utilizzare allora. L’amore per la bellezza dell’arte non conosceva limiti per il marchese dallo sguardo addolorato, ma sempre signorile e da gentiluomo.
Si occupò, poi, del pavimento della chiesa dei SS. Apostoli, fu attratto da Santa Eufemia, dall’antico luogo del monastero di S. Maria in Organo; ma ciò che è da ricordare in quei primi anni Venti del Novecento, fu il restauro straordinario della pieve barbarico-romana di S. Giorgio di Valpolicella. Egli fu il grande artefice dell’attuale, bellissima visione che allo spettatore moderno appare: ricostruì il famoso ciborio longobardo smantellando le sovrapposizioni apportate nei secoli precedenti.
L’ingegnere, come sopra detto, era innanzitutto uno studioso attento e a cui raramente sfuggivano le grandi cose. Occupandosi di capitelli, di materiali plastici presenti in molti complessi architettonici soprattutto religiosi, egli volle capirne anche le origini: e, per questo, approfondì i suoi interessi di ricerca verso l’Arcidiacono Pacifico, il grande genio veronese del IX secolo; calligrafo insuperato, inventore di bussole, straordinario cesellatore dell’oro e dell’argento, miniatore, trascrittore di codici, grande lavoratore dei metalli: ne uscì un saggio davvero importante che, nel 1934, pose nuovamente all’attenzione degli studiosi un artista geniale mai dimenticato e l’epitaffio presente nella Cattedrale ne tesseva e ne tesse tuttora giustamente il valore.
L’amore di Da Lisca per Verona lo portò ad occuparsi delle casette lungo l’Adige a S. Alessio nel 1935: non sopportò internamente quella distruzione, ma adeguò il suo spirito alla politica del tempo; quelle costruzioni, per il mondo di allora inconcepibili perché credute cadenti, erano, nella realtà, di origine romana e apparvero così solide – com’egli le ritenne – che fu necessaria la dinamite per abbatterle; anche questa volta, la visione del marchese Da Lisca aveva visto dalla parte giusta. Oggi tra Santo Stefano e San Giorgio in Braida non appare più nulla. E la prima di queste chiese godette della sua cura; il terremoto del 1117 che si abbatté su Verona, sconvolgendola letteralmente, non risparmiò neppure quel tempio che risaliva a tempi antichissimi: un cimitero preistorico, un tempio romano, una chiesa successiva; egli restituì la primigenia bellezza.
Furono quelli gli anni nei quali l’ingegnere, lo studioso, il restauratore dettero alla luce quello che fu uno dei maggiori interessi: nel 1941 uscì, dalle stampe, La basilica di S. Zenone in Verona; il libro sul capolavoro dell’architettura romanica in Italia, deve essere considerato, altresì, anche il capolavoro del Da Lisca: ricollocò il Trittico di Andrea Mantegna, riposizionò molte cose interne, ristudiò gli affreschi, il rosone, riordinò l’area presbiteriale: come omaggio a questo impegno, in questo anno 2021, il Comitato per le celebrazioni zenoniane ha pensato di ristampare anastaticamente quest’opera per offrirla a tutti coloro che si accosteranno alla basilica. In quello stesso periodo, egli pubblicò un bel saggio inerente i lavori che aveva già effettuati presso la chiesa di Gazzo Veronese.
L’ultimo impegno pubblico che si ricordi, quando ormai il marchese se ne era andato nel 1937 dalla Soprintendenza, fu quello di dirigere i lavori di restauro, nei primi anni della guerra, nel presbiterio della chiesa di Sant’Anastasia: s’intrattenne sulle opere e sui decori oltreché sui lavori effettuati; fu, anche, scoperto un pregevole complesso pittorico trecentesco che verrà attribuito, da altri, a Turone, ma poi espunto dalle opere di quest’ultimo.
Arrivò il periodo più tragico del secondo conflitto mondiale; Da Lisca rimase disponibile per tutti coloro che fossero ricorsi a lui; rinchiuso nella sua casa in via della Colomba assistette – con lo strazio nel cuore – ai bombardamenti che dilaniarono alcuni monumenti della città che era stato l’amore della sua vita: anche la sua casa fu sventrata e scoperchiata, ma Alessandro Da Lisca non l’abbandonò. Tra i suoi libri, modesto, solitario e silenzioso com’era vissuto, quasi dimenticato, se ne andò per sempre il 18 ottobre 1947.
Verona lo ha praticamente tolto dalle attenzioni verso gli uomini importanti dedicandogli una via in mezzo alla campagna sotto il Porto San Pancrazio e nessuno gli ha dedicato convegni o studi di rilievo. È praticamente scomparsa la famiglia che, pure, sin dal 1300 aveva ricoperto un lustro notevole nella Verona della cultura e della nobiltà; anche la villa Da Lisca, chiusa da anni, non parla più di una storia allargatasi tra le campagne di Formighé, bagnate dall’Antanello, e il Busolo, appena a sud del territorio di Lavagno; neppure nessuna delle abitazioni accanto a San Vitale, in città, può ormai raccontare la storia della famiglia dei marchesi e dei conti Da Lisca.

Bibliografia: Giuseppe Silvestri, Veronesi del Novecento: Alessandro Da Lisca, “Vita veronese”, IV, 1951, n. 4, pp. 8-15; Maria Grazia Martelletto, Restauri di liberazione, di ricomposizione e di consolidamento. Gli interventi di Alessandro Da Lisca (1905-1909), in Intorno a S. Fermo Maggiore: cronache sacre, vicende urbane, interventi edilizi, Verona,  Soprintendenza, 1990, pp. 83-88; Pino Simoni, L’opera di Alessandro Da Lisca sulla basilica di San Zeno, “Annuario storico zenoniano, VIII, 1991, pp. 55-62; Paolo Rigoli, Alessandro Da Lisca, in L’architettura a Verona: dal periodo napoleonico all’età contemporanea, a cura di P. Brugnoli-A. Sandrini, Verona, Banca Popolare di Verona, 1994,  pp. 423-425; Maristella Vecchiato, Da Lisca, Alessandro, in Dizionario biografico dei Veronesi (secolo XX), a cura di G.F. Viviani, Verona 2006, p. 270; Maristella Vecchiato, Alessandro Da Lisca, in Dizionario biografico dei Soprintendenti Architetti (1904-1974), Bologna, Bononia University Press, 2011, pp. 230-232; G. Volpato, Alessandro Da Lisca e Verona, in Alessandro Da Lisca, La basilica di San Zenone in Verona, rist. anast., Verona, Comitato per le celebrazioni zenoniane, 2021, pp. VII-XVIII; M. Vecchiato, Il Soprintendente ai Monumenti di Verona Alessandro Da Lisca, “ibidem”, pp. XIX-XXII; Giovanni Villani, L’affresco della torre abbaziale di San Zeno e lo sguardo di Alessandro Da Lisca, “ibidem”, pp. XXIII-XXVIII; Flavio Pachera, Qualche nota di lettura per questa ristampa anastatica, “ibidem”, pp. XXIX-XXXII.

Giancarlo Volpato              

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