Dal Cero Luciano
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Medaglia d’oro al valore civile, resistente, Luciano Dal Cero nacque a Monteforte d’Alpone il 7 gennaio 1915. Sin da piccolo, oltre alla grave perdita della mamma, non godette mai di una ferrea salute in seguito ad una forma di tubercolosi. Anche gli studi subirono dei rallentamenti proprio per questa ragione; dopo il diploma s’iscrisse alla Facoltà di Scienze politiche a Padova che non riuscirà mai a portare a termine. Ebbe nella sorella Lisetta (Maria Elisa), nata tre anni dopo, un aiuto sempre molto generoso e forte e sarà, più avanti, il suo braccio destro.
Spirito profondamente religioso, si dedicò al cinema: fu la grande passione della sua vita. Andò a Roma, seguì corsi e si occupò, soprattutto, di realizzare documentari e film scientifici per ragazzi. Credeva fermamente nella capacità educativa del grande schermo: per questo si rivolse a padre Agostino Gemelli, rettore dell’Università Cattolica di Milano, genetista, affinché lo aiutasse; si rivolse pure al Vaticano: sia il primo sia il segretario del papa, cioè colui che diventerà poi Paolo VI, declinarono le sue richieste che si limitarono all’incoraggiamento. Fu aiutato dal GUF, Gruppo Universitario Fascista e istituì, a Verona, una sede del Cineguf; al Ministero della Cultura Popolare, scrisse più volte; alle varie istituzioni della Chiesa, sicuro di trovare validi alleati, domandò aiuto per fare – per i ragazzi – un “cinematografia cattolica”: aderirono, alla sua richiesta, i Padri Carmelitani Scalzi, i Minori Conventuali e le Missioni del Sacro Cuore. Scrisse soggetti, mise in moto corti e lungometraggi, ambientò le sue opere con carattere sempre vicino alla fede cattolica, attingendo dalla storia quotidiana, dai luoghi a lui vicini, sempre attaccato alla realtà con un’espressione pulita, italiana, com’era nelle sue profonde aspirazioni. Realizzò l’ultimo suo film, I monelli di Verona, proprio in uno dei momenti più tragici della storia d’Italia.
Il 25 luglio 1943 venne defenestrato Mussolini e per Luciano Dal Cero si aprì una vita nuova, diversa, sinceramente abbracciata con lo spirito del patriota, del cristiano che credeva nella libertà e nell’amore. Quella sera, egli sventolò la bandiera italiana gridando che, finalmente, la libertà era arrivata. Ma lo stato di guerra continuava: e di lì a poco giunse l’8 settembre, il giorno dell’armistizio.
I conti non tornarono: s’abbatté sulla patria uno dei momenti più terrificanti; la trappola del nazi-fascismo era dietro le spalle, pronta a colpire, senza alcuna remissione.
Dal Cero trovò rifugio in Vaticano, da dove se ne andò in fretta; arrivò e si fermò ad Ala di Trento dove gruppi di resistenti si erano già messi insieme.
Fu tra i primi artefici del movimento partigiano: il territorio a est di Verona, ma soprattutto la Valle dell’Alpone, furono i luoghi dei suoi interventi. Catturato il 25 novembre di quel 1943, assieme alla sorella Lisetta (poi dimessa), fu condannato; portato in carcere, al “Corridoni” di Verona, subì atroci torture e fu sottoposto a reiterate violenze. Riuscì a fuggire, ma venne ripreso e rinchiuso nella prigione “agli Scalzi”, sempre in città: luogo famigeratamente famoso per quanto vi accadde. Qui, uomo di fede e dalla speranza incrollabile, con il suo sorriso pudico e spesso silenzioso, egli conobbe molte persone e fu per loro come un fratello; condivise la stanza con Norberto Bobbio, una delle menti più elette della cultura italiana del Novecento, che lo ricordò con affetto e grande ammirazione.
Dal Cero fu rimesso in libertà in seguito ad un’amnistia nel settembre 1944. E, per lui, grazie ad un carattere fermo, deciso, pieno di riflessioni ma dalle decisioni rapide, si riaprì una nuova via. Egli aveva abbracciato, di slancio, la causa della libertà; poi la sua mente la riassorbì, fece propria quella scelta, senza compromissioni. Costituì la brigata “Luciano Manara” (non casuale la scelta del nome in memoria di colui che aveva dato la vita, nel 1849, nella difesa di Roma contro le truppe francesi), raccogliendo, anche, i partigiani usciti dallo scioglimento della “Pasubio”: egli arrivò a comandare circa 600 uomini (e con lui, sempre accanto come mente suadente e precisa, la sorella Lisetta). Guidò con energia e determinazione azioni contro tedeschi e nazifascisti: sabotaggio, cattura, rastrellamenti, allontanamento dai luoghi delle abitazioni. Le zone di operazione furono l’area collinare sopra la strada statale 11 nel tratto tra Caldiero e San Bonifacio: ma fu la sua valle, quella dell’Alpone, il luogo dove maggiormente la sua brigata operò.
Cattolico militante, coerente con la propria fede, sapendo che nei luoghi delle operazioni militari – soprattutto nelle campagne e nelle contrade – sarebbero accadute gravi vicende, dette ordine ai suoi partigiani: “Dico a tutti: niente spargere sangue, siamo cristiani. Chi entrerà nella vallata dell’Alpone e deporrà le armi, avrà salva la vita”; ai suoi seguaci, agli amici, ai combattenti, inculcò il valore del perdono. Egli fu un comandante sereno, dallo sguardo vigile eppure condiscendente con i compagni, scrupoloso ma mai arrogante, attento e perspicace ma mai superiore a chi, come lui, aveva abbracciato con serietà e pienezza di consenso un momento di grave minaccia. Così il “comandante Paolo”, come volle essere chiamato, guidò con destrezza attacchi e sorprese, represse azioni e cercò di preparare un domani migliore.
Fu costretto, anche, ad essere ricoverato in ospedale a Soave, a causa della sua salute: ma ne uscì sempre in breve poiché i tempi non potevano permettere oltre la sua assenza.
In quei giorni di dolore (anche quando era nascosto a Brenton di Roncà), quando la morte appariva sempre davanti, nel suo spirito non si alzarono mai il rancore né l’ira e non mancò mai, in lui, il sorriso discreto e suadente: Lisetta, il suo angelo protettore, gli era sempre accanto. Quando i resti tedeschi batterono in ritirata, la brigata “Manara” volle fare un rastrellamento: e per Luciano Dal Cero venne il momento della tragedia. Il 29 aprile 1945 (la prima domenica dopo la Liberazione), a “Maso” di Gambellara, fu ferito da un nemico nascosto dietro un albero. Cercò di ripararsi, asciugandosi il sangue, sotto un ciliegio, in quella primavera avanzata: e Alessandro Disconzi, commilitone della sua brigata, lo freddò con due colpi; tentò di sfilargli uno stivale dove il comandante “Paolo” aveva nascosto carte compromettenti circa un partigiano comportatosi male e che aveva fatto mettere agli arresti. Fu un atto vile, rancoroso, brutale; quel finto partigiano di Roncà voleva togliergli i documenti: Dal Cero, forse, li avrebbe usati, ma – lo crediamo fermamente – avrebbe perdonato quell’infedele.
Ancora una volta, il fuoco amico (figlio della falsità e dell’odio), aveva tolto alla vita un eroe silenzioso, buono, integerrimo e un vero partigiano dell’Italia ferita.
La sorella Lisetta prese il comando e guidò – nel dolore e nella disperazione del cuore – le ultime azioni della brigata.
Nel 1952 il Disconzi non fu condannato, adducendo strane fatalità: e fu, malauguratamente, la sorte di tanti vigliacchi di quegli anni infelici.
Il 12 giugno 1947, l’Università di Padova concesse a Luciano Dal Cero la laurea “honoris causa” in Scienze politiche: gliela diede il Rettore Egidio Meneghetti (v. questo Sito), scienziato, poeta, resistente veronese; nel 1951, per gli straordinari meriti esistenziali, a lui fu conferita la medaglia d’oro alla memoria (alla sorella Lisetta, quella di bronzo al valore civile).
Verona gli ha dedicato un viale, molti paesi lo hanno onorato con una via o con una piazza. Nel cimitero di Roncà, dove riposano i suoi resti, Egidio Zago ha eretto un suo ritratto in bronzo. San Bonifacio ha intitolato al suo nome l’Istituto Statale di Istruzione Secondaria Superiore: qui, Lisetta Dal Cero, che si era laureata in fisica ed aveva insegnato matematica, fu Preside.
Poi, come sempre accade, anche su di lui prese il sopravvento la dimenticanza. Ma, ora, studenti e docenti dell’Istituto di San Bonifacio, gli hanno dedicato una bella ricerca (v. Bibliografia): hanno riaperto un grande varco; in esso, il corpo esanime di Luciano dal Cero, steso sotto il ciliegio del “Maso”, mentre gli ultimi petali cadevano sul suo volto pallido, è ritornato vivo: come un canto corale nel silenzio della morte.
Bibliografia: In memoria del Comandante Paolo (Luciano Dal Cero): caduto nella lotta di Liberazione il 29 aprile 1945, [S.l., s.n.], 1946; Angelo Fossà, Il fatto d’arme in cui morì Luciano Dal Cero: nel quadro degli avvenimenti verificatisi alla fine dell’aprile 1945 nella zona pedemontana di Montebello-Gambellara-Roncà, Vicenza, Tip. Stocchiero, 1947; Ugo Brusaporco, Il cinema a Verona: 1930/1943, Bosco Chiesanuova, Edizioni Scaligere, 1987, pp. 73-162; Mario Gecchele-Delio Vicentini, Il dolore della guerra: vicende e testimonianze in Val d’Alpone e dintorni, Vago di Lavagno, Tip. La Grafica, 1995; Vasco S. Gondola, Dal Cero Luciano, in Dizionario Biografico dei Veronesi (secolo XX), a cura di G.F. Viviani, Verona 2006, pp. 267-268; Maurizio Zangarini, Storia della Resistenza veronese, Verona-Istituto per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea-Sommacampagna, Cierre, 2012, pp. 60-74; ISISS “L. Dal Cero”, Luciano Dal Cero: una vita per la libertà. Il pensiero, le testimonianze, i luoghi della memoria, San Bonifacio, ISISS, 2019; Giancarlo Volpato, Come un canto corale nel silenzio della morte: Luciano Dal Cero e il suo ricordo, in ISISS, Luciano Dal Cero: una vita per la libertà…, pp. 9-12.
Giancarlo Volpato