Roncari Giovanni Battista

…a cura di Giancarlo Volpato

Poesia

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Don Gio Batta Roncari

Sacerdote, poeta, patriota, insegnante, accoglitore della povera gente, Giovanni Battista (per tutti Gio Batta) Roncari nacque nella contrada dei Carradori di San Bortolo delle Montagne (comune di Selva di Progno) il 17 dicembre 1885. Aveva sei fratelli e tre sorelle. Contrariamente a quanto accadeva all’epoca, egli compì gli studi della media inferiore e poi quelli liceali, prima a Verona e dopo a Desenzano dove conseguì la maturità classica. La vocazione sacerdotale lo avviò agli studi teologici e venne consacrato presbitero nel 1913. La sua via – egli lo ribadì più volte – gli fu indicata da don Serafino Rossi, parroco di San Bortolo sin dal 1894, quando questi diventò animatore della comunità e aprì, al piccolo Roncari, la strada dell’altruismo, del donare se stessi per il bene di coloro che ne avevano bisogno. Quando nel 1905 don Rossi venne trasferito ad Erbezzo, il ventenne gli dedicò una poesia nella quale lo ringraziava dell’influenza positiva esercitata su di lui. Così, precocemente, il montanaro dei Carradori manifestò la sua inclinazione ai versi.
La prima esperienza sacerdotale fu Quinzano dove venne inviato, dal cardinale Bartolomeo Bacilieri, quale insegnante elementare e aiutante della parrocchia. Iniziò davvero la sua vita presso i ragazzi – che rimasero il centro focale dei suoi interessi di uomo e di prete – con una dedizione che molti allievi ricorderanno nel tempo.
Avvenne la guerra e Gio Batta Roncari partì per il fronte: fu tenente cappellano sul Monte Grappa; qui – e la sua tempra era già chiara – si dette da fare non solo nella cura delle anime, ma soprattutto in quella del recupero morale, della vicinanza solidale con i feriti, nell’amore incondizionato per coloro che avevano forzatamente lasciato i propri cari. Non bisognerà mai dimenticare questa forma di bontà ch’egli nutrì per tutti, indistintamente, ma particolarmente per quelli cui la vita d’ogni giorno aveva offerto poco. A quell’esperienza, stilati nel 1917, egli dedicò Primavera durante la guerra, versi soffusi di speranza e di fiducia per la fine di quella ch’egli definì “immane tribolazione”.
Ottimo predicatore, da Quinzano veniva chiamato nelle parrocchie: la sua verve, un poco stravagante per allora, tra la stranezza del suo modo di fare, la concretezza del porgere, era sempre animata da una forma di schiettezza che attirava i fedeli. Bisogna, tuttavia, ricordare che don Roncari, spesso poco attento alle forme di una liturgia rigorosa, crebbe, invece, in un’epoca dove, dal punto di vista pastorale, la conduzione del vescovo Bacilieri fu severa ed austera sia in campo dottrinale sia nella pratica pastorale: e le prediche, nonché molti versi, del prete montanaro di San Bortolo risentirono di questo insegnamento; sacerdote di grande umanità, uomo dedito all’amore altrui, non fu mai transigente su alcune forme, oggi certamente superate, dell’atteggiamento della Chiesa verso i fedeli. A Quinzano lavorò molto anche con l’Azione Cattolica; e qui, probabilmente, egli giocò il suo futuro. Fieramente contrario alle idee fasciste e all’indottrinamento politico, egli predicò la libertà dell’insegnamento cattolico, non sempre in linea con le idee imperanti; la lealtà verso la patria – e lo disse molte volte – non andava disgiunta dalla difesa dei diritti della Chiesa e dall’affermazione di una morale cristiana interpretata con rigore. Gio Batta Roncari porterà sempre con sé la complessa temperie di quell’epoca tra un vescovo (e non sarà meno con Girolamo Cardinale) troppo rigido e l’incomparabile prestigio, non solo culturale, di Mons. Giuseppe Zamboni, di Mons. Giuseppe Chiot e soprattutto di Mons. Giuseppe Manzini (v. questo Sito) figura di sommo valore nella Verona cattolica della prima metà del Novecento.
Così, nel 1928, certamente su pressione dei fascisti, fu trasferito a Pazzon di Caprino Veronese; dall’8 luglio di quell’anno, egli divenne il parroco del paese, con Spiazzi e le contrade sparse nel territorio: arrivò in quel luogo, un poco fuori dal mondo, ma fu il trionfo della sua vita. Il montanaro Roncari ritrovò un mondo che amerà infinitamente forse perché assomigliava a quella sua giovinezza o, forse, perché s’accorse subito che sarebbe cambiata la sua vita visto che i lavori da fare – oltre alla cura delle anime – sarebbero stati molti.
A Pazzon egli diede prova immediata del suo dinamismo e del suo spirito d’iniziativa. Pensò subito anche alla chiesa di pietre, non volendo sentire più quel triste ritornello che circolava da antica data: “A Pazzon ottime campane, bel campanil, ma… la cesa l’è proprio on fenil”. Don Igino Silvestrelli, fondatore dei “Servi di Nazareth”, uno dei ragazzi del luogo allevati e fatti crescere dal montanaro (come spesso amava farsi chiamare), raccontò (don Roncari non mise mai in pubblico ciò che aveva fatto) che il nuovo parroco la ideò grandiosa, a sentinella della vallata caprinese. Lavorò con la gente del luogo, anche di domenica, perché la causa era sacra. Come le cave di Campofontana erano servite a don Serafino Rossi per innalzare la chiesa di San Bortolo, quelle della valle di Porcino furono benedette per il tempio di Pazzon; nel 1935 fu inaugurato; nel 1936 iniziò a costruire l’asilo, fece riattivare la chiesetta di Vilmezzano; incoraggiò il restauro e l’abbellimento di altre piccole e i capitelli delle contrade, dette nuova vita agli affreschi quattrocenteschi nell’oratorio di San Martino, proprio accanto alla parrocchiale; poi realizzò la chiesetta di Contrà Braga: ad essa dedicò dei versi “Salve, o dei sogni miei linda chiesuola./Tu sei dei monti miei la cattedrale”. La piccola balza da cui si affaccia sulla valle (i pendii del Baldo, la Rocca del Garda, le colline moreniche di Costermano, il lago) portò sempre, nel cuore di don Roncari, un’immagine senza uguali. Per rimanere nell’ambito della sua attività, dopo la seconda guerra, ed esattamente nel 1952, sorse la parrocchiale di Spiazzi. Subito dopo, con un gesto perlomeno incomprensibile, gli fu tolta la responsabilità di quel territorio. Con il solito garbo, ma non senza un acuto rammarico, versificò: “Eco che apena te ghè preparà la polenta,/i te tol panara e anca polenta”.
La preoccupazione per queste opere materiali non affievolì assolutamente, in don Battista, lo slancio della carità. La stessa costruzione delle chiese fu il frutto di quest’ultima: andava laddove sapeva, chiedeva manodopera, accoglieva tutti coloro che avevano bisogno. Egli lasciò scritti versi interessanti sulle opere materiali cui dedicò molto del suo tempo; ma, per un pastore d’anime, fu assai più importante il compito ch’egli si era sempre dato: di essere vicino, in silenzio, a chiunque egli pensasse bisognoso. Fiorirono vocazioni maschili e femminili, portò alle scuole veronesi giovani allievi e le ragazze, altrimenti destinate alla vita di casa; andava personalmente negli istituti cittadini, perorava la causa, non demordeva mai; molte di queste persone parlano, ancora oggi, di don Roncari come il loro benefattore.
Venne la guerra, la seconda; la prima era stata la tragedia dei suoi trent’anni, ora era quella della sua maturità. La sua intelligenza, ma soprattutto la sua perspicacia, non potevano impedirgli di denunciare le contraddizioni e la retorica di un certo fascismo. Lo fece nelle prediche, lo disse in pubblico; tuonò dall’alto (e lo scrisse) contro l’invasione nazista della Polonia nel 1939 nella quale vide l’avvio di anni terribili; fu spesso invitato a tacere, ma il fascino dell’uomo e del prete sorpassarono ogni cosa. Assistette a tragedie contro le quali non poté fare nulla: gli furono uccisi un cognato, il marito della sorella, organaro nella chiesa di San Bortolo e due nipoti; si oppose alla deportazione di ebrei, ne nascose molti; conobbe privazioni, umiliazioni ma non le raccontò mai. Entrò tra i partigiani, nel Comitato di Liberazione Nazionale, con il nome di “don Recioto”, un epiteto sul quale scrisse, più tardi, dei versi scherzosi. Attraverso la Croce Rossa svizzera, don Battista riuscì ad avere aiuti per i suoi parrocchiani; non riuscì a fermare la tragedia di una mamma, d’origine ebraica, che fu costretta a portare con sé la bimba di due anni e tre mesi: finirono entrambe nella camera a gas ad Auschwitz. Con il pianto nel cuore, don Battista intitolò l’asilo a Magda Bodner che se ne era andata, così piccola e innocente, per la cattiveria degli uomini. Rischiò la vita, ma non ebbe mai timori né si tirò indietro; fu un sacerdote nel senso più profondo del termine. Alla fine della guerra, quando le reprimende contro i fascisti furono forti e violente, don Roncari si alzò, senza timori: ricordò a tutti che uccidere, per qualsiasi ragione, non era umanamente comprensibile ed era al di là – e ben oltre – l’insegnamento di Cristo; salvò dalla morte qualche carnefice fascista: tutti gli furono grati.
Il poeta cantò, con il dolore leggibile nei suoi versi, molti strazi di quell’epoca e intitolò Odio politico le proditorie uccisioni, anche di sacerdoti, con gli inevitabili strascichi di vendetta.
Il parroco di Pazzon era instancabile: l’attenzione per i ragazzi e le ragazze superava ogni altro momento; egli aveva capito che il futuro – quello vero e pieno di speranze – risiedeva in loro: erano I butini de la caròbola, che gli furono perpetuamente grati.
Un giorno, non riuscendo ad ottenere finanziamenti per queste opere di carità, andò a Roma assieme ad un maestro elementare del luogo. Si presentò al Ministero della Pubblica Istruzione, retto da Guido Gonella (v. questo Sito); era stato suo compagno di scuola, come lo furono Giuseppe Trabucchi e Ugo Zannoni, provveditore agli studi di Verona. Non volendolo fare entrare, don Giobatta usò il bastone che aveva portato con sé e lo sbatté forte: il ministro capì, uscì, lo abbracciò e il parroco del piccolo paese ritornò a casa con quanto gli serviva per ampliare l’asilo, le scuole, mandare a studiare i ragazzi poveri delle contrade di Pazzon. Raccontò la nipote, che viveva con lui, dopo la scomparsa della madre e della sorella, che il parroco tornava spesso a casa senza camicia, senza le scarpe, che prestava il suo materasso, che apriva “l’ovile del parroco”, come venne chiamato dalla gente, senza nessuna condizione: tutti trovavano un posto sia che fossero stati ebrei, rom, o di qualsiasi altra etnia.
Nonostante fosse stato dipinto come il prete montanaro (con quello che, allora, voleva significare), don Battista aveva un profondo senso della cultura: la giudicava irrinunciabile perché – e lo scrisse chiaramente – era foriera del futuro.
Fu un buon poeta; scriveva versi, in dialetto e in italiano, in qualunque luogo egli fosse: le sue carte si trovavano nelle tasche della tunica sacerdotale finché, un giorno, si decise di pubblicarle, probabilmente su pressione di persone che ne avevano conosciuto il valore; così, nel 1950, uscì un libretto, contenente 30 poesie dal titolo Aria de Montebaldo: poesie in dialetto veronese e tre anni dopo Poesie di un parroco, in italiano. Le due raccolte iniziali aumentarono, poi; conobbero nuove edizioni. Oggi è possibile leggere le due raccolte d’autore: Aria de Montebaldo. Poesie in dialetto veronese con appendice su la Lessinia e San Bortolo, 3 ed., Verona, Vita Veronese 1963 e Poesie di un parroco, 2° ed. aumentata (sempre Vita Veronese), 1963. Il comitato di Pazzon lo volle ricordare nel 25 anno della morte raggruppando i versi del poeta: Aria de Montebaldo nelle poesie di un parroco: nel 25° della morte (1991).
Da un primo sguardo appare certamente superiore la raccolta delle poesie in italiano dove l’autore dimostra una buona conoscenza della tradizione poetica italiana (da Dante a Manzoni, con qualche apertura di Carducci); in quella dialettale si sente, al di là della conoscenza, il suo passato d’insegnante dedito a fare studiare anche ciò che stava al di fuori del mondo della parlata quotidiana. Nessuno, tuttavia potrà negare l’alto significato della sua fedeltà al mondo della poesia, ad una ricerca che avvicina la parola dell’uomo a quella di Dio. Fu onorato di premi, di riconoscimenti, del Cavalierato della Repubblica: se ne scordò sempre.
Scomparve il 2 dicembre 1966: volle rimanere a Pazzon accanto alle spoglie della sua mamma. A lui è intitolata la piazza del paese, un busto si trova nel cimitero; il 28 agosto 2010, l’Amministrazione comunale di Selva di Progno e la Parrocchia di San Bortolo, davanti alla sua casa natale, eressero una lapide su cui appare, incisa, la poesia Casa mia.

Bibliografia: Neristo Benedetti, Ricordo di don Giobatta Roncari, Verona, Trombin, 1969; Romano Marchi, La Resistenza nel veronese. Storia della Divisione Avesani, Milano, Vangelista, 1979, pp. 71-72; Gioacchino Gaiga, Don Giovanni Battista Roncari, in Id., Dal paesello incontro al mondo, Verona, Stimmgraf, 1996, pp. 97-124; Angelo Orlandi, Roncari Giovanni Battista, in Dizionario biografico dei Veronesi (secolo XX), a cura di G.F. Viviani, Verona 2006, p. 709; Aldo Ridolfi, La poesia di don Giobatta Roncari, “Quaderni culturali caprinesi”, 4, 2009, pp. 123-126; Atti del Convegno su don G. B. Roncari, a cura di G. Gugole, “Cimbri/Tzimbar: vita e culture delle comunità cimbre”, XXII, 2010, n. 44, pp. 57-78 (contiene: G. P. Marchi, L’esperienza poetica di un parroco. Don G.B. Roncari tra italiano e dialetto; S. Marcazzani, In ricordo di don Gio-Batta Roncari il parroco-poeta; V. S. Gondola, Analisi della poesia “Casa mia” di don Giobatta Roncari); Dario Cervato, Don Giovanni Battista Roncari (1885-1966), in Id., Tunica Christi. Preti veronesi del Novecento, Verona, Curia Diocesana, 2010, pp. 203-204; Graziano Cobelli-Aldo Ridolfi, Roncari Giobatta, www.ilcondominionews.it, 5 marzo 2015.             

 Giancarlo Volpato  

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