Robotti Andreina

…a cura di Giancarlo Volpato

Poesia

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Andreina Robotti

Pittrice, emancipazionista, Andreina Antonioli nacque a Iseo (Brescia) il 31 luglio 1913. La famiglia si trasferì assai presto a Siena dove ella frequentò le scuole iscrivendosi, poi, all’Accademia di Belle Arti nella città toscana. Furono proprio gli echi dei preziosi cromatismi della pittura senese che formarono, in lei, la fondamentale componente di molta sua produzione artistica successiva. Qui ebbe modo di conoscere e studiare le opere di Duccio da Boninsegna, di Simone Martini, di Pietro, Ambrogio e Giovanni Battista Lorenzetti; ella portò sempre con sé, l’insegnamento che trasse dai grandi pittori che esaltarono, in lei, il senso profondo del colore e dell’uso di esso.
A Siena conobbe Pietro Robotti che divenne suo marito: da quel giorno ella firmerà sempre le sue opere con il cognome dell’uomo che aveva sposato tanto che pochi critici o studiosi ricordarono quello originario.
Negli anni Quaranta, assieme alla famiglia, si trasferì a Verona che divenne la sua patria d’adozione e dalla quale non si staccò più se non per le esigenze inerenti l’attività. Qui Andreina Robotti divenne allieva di Pio Semeghini di cui sentì, agli inizi, il fascino delle pennellate chiare e ricercate. Questa fu, però, una breve parentesi poiché, spinta dalla propria natura artistica, ella ricercò (e mise in atto) nuove esperienze, spesso fantasiose, ma sempre caratterizzate da una stretta relazione tra disegno, pittura e grafica. L’artista si cimentò sempre – seppure in tempi diversi e con differenti soluzioni – a tutte e tre le tipologie.
Il mondo della sua pittura o della grafica o delle altre scelte artistiche risentì costantemente di stilizzate figure che andarono dal naïf (quasi un poetico primitivismo) sino ad un mondo “senza confini” dove il linguaggio replicava soggetti – con chiare dissonanze – senza mai cadere nell’iterazione: quasi sempre, soprattutto in alcuni casi, con intenzioni e scopi metaforicamente percepibili grazie ad una capacità innata di creare, di utilizzare piccole soluzioni ottenendone effetti spesso visibili oltre il segno, oltre il disegno, oltre le scelte a volte molto personali e di non apparente ed immediata comprensione.
La Robotti fu una pittrice del tutto sui generis. Lontana dal paesaggio inteso come modello delle opere dipinte, solitaria come disposizione artistica, apparentemente non attratta da ciò che il visitatore o il lettore desiderano vedere, ella si dedicò ad una visione del tutto personale del mondo circostante. L’opera, si sa, non cerca riparo, ma spalanca la propria intimità allo sguardo: è un luogo aperto, uno spazio non sempre còlto come evidenza. Questi furono, nella sostanza, i principi fondamentali che illuminarono la sua vita d’artista. E anche per questo, almeno per alcuni anni, la sua fama rimase lontana. Così come furono le mostre. Ella apparve al grande pubblico nel 1949 quando – quasi improvvisamente – le si aprirono le porte: e fu l’anno dell’esplosione. Andreina Robotti espose alla Biennale di Verona, alla Triennale di Milano, alla Triveneta di Padova; in questi luoghi – assai celebrati, allora, e prestigiosi – le vennero riconosciuti dei premi; alla pittrice, sino ad allora quasi sconosciuta, furono conferiti il Premio Michetti, il Premio Giorgione, il premio istituito dalla casa editrice Motta, il Premio Marzotto nonché quello dell’Angelicum del capoluogo lombardo.
Non è dato sapere (la pittrice si tenne sempre lontana, come persona, da qualsiasi gesto o qualsiasi dichiarazione) se ella conoscesse l’affermazione di Robert Musil per il quale “non si guarda il mondo con gli occhi del mondo, ma lo si ha già nello sguardo”: così, in effetti, bisogna leggere pressoché tutta la sua opera, assai poco vicina al mondo della pittura del secondo dopoguerra, per il quale contavano soprattutto l’evidenza, il segno accogliente, a volte il colpo d’occhio (per il quale, comunque, la Robotti dimostrò attenzione).
Pressoché tutta la critica e tutti coloro che s’avvicinarono alle sue opere, iniziarono a parlare da ciò che avvenne, per lei, dall’inizio degli anni Cinquanta: vedute còlte con una manualità rapida, sempre sul punto di dissolversi o illustrazioni di passi evangelici, poco più che abbozzate, come fossero apparizioni magiche. Occhi fantasiosi, quelli della pittrice veronese, che vedevano cose invisibili, che scovavano e trapassavano acque, salivano alberi e fiori, sorvegliavano le mille vite dei boschi. Universi “spiritosi e garbati” li definì Dino Buzzati; guardando la produzione di allora – ma anche molta della successiva – la pittura della Robotti potrebbe apparire come quella di un regno segreto, un po’ fatato, un po’ stregonesco.
Anche Verona s’accorse della bravura dell’artista, un poco strana e riservata eppur non lontana dall’evoluzione che – in tempi assai rapidi – l’arte (non solo la pittura) stava per conoscere. Ella aveva gli occhi proiettati in avanti, assai più di quanto si potesse credere. Nella città scaligera lavorò molto per Giorgio Bertani, l’editore di sinistra, che fu – per molti, anche per gli apparentemente silenziosi – un punto d’incontro anche dell’evoluzione politica che la società stava per conoscere. Per lui Andreina Robotti fu autrice di cartelle litografiche, illustrazioni, sopraccoperte di libri: ella dava il via a quella che diventerà per lei – pure non avendola mai dimenticata – un’attività grafica di straordinaria rilevanza. Fu il 1965 l’anno del vero inizio di questa sua attività: allorquando firmò – con esiti di bellezza assoluta – le tredici illustrazioni per il Cantico dei Cantici uscito dalla tipografia eccellente di Alfio Fiorini.
Gli anni Sessanta segnarono, per la Robotti, un’ulteriore svolta. La sua arte prese alcune vie diverse. Le sue figure tendevano a perdere la loro identità, come se retrocedessero in se stesse: sembravano calchi, stampini, sagome istoriate come se i piccoli personaggi, soli e stonati, si accalcassero a formare masse sterminate ai margini, se non al di fuori, della storia. Erano – e sono, anche agli sguardi attuali – esseri appiattiti, fossilizzati, spettrali senza colore ma affidati alla crudezza e alla concisione dell’inchiostro indelebile. Furono gli anni dell’impegno politico di Andreina Robotti: più ideologico, che reale in verità.
E accadde quello che, forse, ella stessa non pensava: divenne celebre, cominciò ad avere una riconoscibilità a livello non solo nazionale tanto da essere chiamata ad esporre con figure di fama mondiale per le quali basterebbero le citazioni di Marina Abramović, Valie Export, Gina Pane, Marisa Merz. Andò in molte città italiane, in Germania, in Olanda. Abbracciò il “Fronte di liberazione della donna”, seppure senza scandali o azioni rivoluzionarie: convinta assertrice del riscatto femminile per la condizione nella quale il cosiddetto sesso debole si era storicamente trovato da sempre, Andreina Robotti portò avanti la sua azione d’artista con una vena d’ironia e con quel sorriso “bonario” che avvolgono le vittime e i carnefici nella medesima condizione; erano, anche questi, segnali di rivolta e denunce dei rituali della repressione cui la donna era da sempre sottoposta. Ella li chiamò “oggetti d’amore”: mutande mutate (segno della prostituzione, di un sacrificio senza onore), indumenti con i segni tagliati perché pronti per il sesso, vestaglie, lenzuola come fossero oggetti della messinscena della sacra oscenità familiare.
Non passò inosservato il lavoro della Robotti. Negli anni ’70 partecipò a molte esposizioni: Iseo (1972), Brescia (1973), Erbusco in provincia di quest’ultima (1974); qui la mostra aveva come titolo “Coazione a mostrare”: la curatrice, Romana Loda, fu denunciata per oscenità e istigazione all’aborto per avere esposto le opere di Niki de Saint-Phalle e di Andreina Robotti; tutto rientrò in fretta, ma fu chiaro l’intento. Nel 1975, nel castello Oldofredi d’Iseo (il luogo natale che la veronese non dimenticò mai), si tenne una mostra che fece scalpore: “Magma”, questo era il nome, radunò solo donne artiste e fu portata a Berlino, a Ferrara, a Francoforte sul Meno, a Lodi e poi a Castelvecchio in Verona; Andreina Robotti era uno dei punti di diamante. Nello stesso anno fu presente ad un’esposizione dal titolo molto chiaro: “La donna: condizione/protesta”. Più tardi andò a Bilbao, a Salisburgo e in altri luoghi fuori dell’Italia.
Nel 1978 fu l’autrice della copertina delle poesie di Wanda Girardi Castellani, Noialtre: da la parte de la dona (Verona, Stei). Firmò pure un Don Chisciotte, come opera a sé stante e molte altre opere.
Nel 1983 realizzò Gotico fiorito, forse la sua opera più celebre: seducente e caratterizzata da un uso del colore, l’opera richiamò subito l’infanzia e la gioventù a Siena; con mano suadente e di serena bellezza sembrò che l’autrice avesse messo insieme i grandi che aveva amato nella città toscana, il Pisanello veronese e la mano di Kandinsky: forse ella volle gettare un ponte tra due rive lontane per approdare alla sua ultima pittura musicale, certamente orfica. Classicità e contemporaneità caratterizzarono un po’ tutta l’opera dell’artista: anche se mai con un sistema fermo, bensì con indicazioni provvisorie come su sentieri senza meta, in una molteplicità di corrispondenze e di varietà visive. Paesaggi come galassie, labirinti, arabeschi, fuochi d’artificio: come amati giochi in cui perdersi e in cui ritrovarsi infinitamente.
Nel 1986 realizzò una vetrata per la chiesa di San Francesco d’Assisi, presso l’Arsenale austriaco di Verona, dove l’Annunciazione del Beato Angelico trovò un’interpretazione personale e poetica conferendole un originale carattere di fiaba. Curò, anche, l’insegnamento ad allievi.
Negli ultimi vent’anni della sua vita, l’artista si dedicò all’acquarello, all’incisione (acquetinte e acqueforti, china su carta soprattutto) ma non dimenticò mai il suo spirito di donna e di artista dallo sguardo senza fine con quell’ironia che fu un’amica inseparabile e che, allo spettatore attuale, appare con lo splendore di una pagina miniata di un libro d’oro.
Partecipò a esposizioni con la consueta immagine di sé: un po’ trasognata, ma di un’attività felice. Durante la sua vita fu insignita di molti premi tra i quali vale la pena ricordare almeno quello del Ministero dell’Industria e Commercio per un paesaggio mistico ad una Mostra nazionale d’arte sacra nel 1975, tenutasi a Padova. La sua presenza all’estero fu assai numerosa e delle sue opere esposte rimangono gli scritti nei giornali locali italiani, tedeschi, svizzeri e francesi sin dall’inizio degli anni Settanta.
Andreina Robotti scomparve a Verona il 31 dicembre 1996. Dopo la morte, la memoria dell’artista non venne meno, poiché sue opere conobbero mostre assai interessanti; fra tutte vanno ricordate quella voluta dal figlio Carlandrea Robotti nella ricorrenza del decimo anniversario e quella retrospettiva tenuta a Riva del Garda nell’ultimo mese del 2012: qui furono portati la produzione serigrafica e gli indumenti dipinti e ricamati. Anche l’Oratorio della Tenuta Musella di S. Martino Buon Albergo ospitò sue opere nel 2014. Fu dimenticata, invece, dalla città e, persino, da alcuni libri sulla pittura veronese.

Bibliografia: essa appare numerosa, sui giornali italiani e stranieri, nei momenti delle mostre ed è, invece, piuttosto carente come studi complessivi; gli opuscoli sotto riportati si limitano alle mostre. Ricordiamo: Andreina Robotti, a cura di Alessandro Mozzambani, Vicenza, N. Pozza, 1969; Italo Mussa, Andreina Robotti: il vissuto nell’immagine, Verona, Bertani, 1979; Luigi Meneghelli, Andreina Robotti. Verona/Perlustrazione non stop 1960/80, Verona, Palazzo Forti, 1983; Gisella Meo-Fernanda Fedi-Andreina Robotti: la poesia delle cinque dita, a cura di Paola Mingozzi, Bologna, Arts & Co., 1992; Nelly Zanolli Gemi, Robotti Andreina, in Dizionario biografico dei Veronesi (secolo XX), a cura di G. F. Viviani, Verona 2006, pp. 705-706; Raffaella Perna, Mostre al femminile: Romana Loda e l’arte delle donne nell’Italia degli anni Settanta, “Ricerche di S/Confine”, Parma, v. 6, 2015, n. 1, pp. 143-154.

Giancarlo Volpato

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