Risposta ai lettori 30 (espressioni dialettali)

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Risposta ai lettori 30 (espressioni dialettali)

Bruno mi chiede se sia vero che la lingua veronese del Trecento facesse terminare i verbi con una vocale, come nel toscano. Una cosa del genere appare oggi strana, eppure… eppure fu proprio così! Noi oggi siamo abituati a sentire i verbi sempre senza vocale finale (come p. es. in finìr, catàr, móvar, vègnar, ecc.), ma fino alla caduta degli Scaligeri la vocale ci fu sempre. Ed era –o.

Facciamo qualche esempio, che ricavo dal pregevole volume di Nello Bertoletti Testi veronesi dell’età scaligera (Padova 2005). In un documento del 1376: è in pacto […] de compraro la possession «è in patto […] di comperare il possedimento» (si noti che certamente pacto era pronunciato pato). In altro documento dello stesso anno: notifica […] a poero vendro «notifica […] di poter vendere»; che […] ello no poesso vendro «che […] egli non potessse vendere». In un ulteriore documento, risalente al 1377: che zaschaum merçaro […] no onso né debia tegniro algum descho «che ciascun mercante […] non osi né debba tenere alcun banco».

Questa vocale finale, che appunto era sempre -o, trova un parallelo fonetico nei dialetti medievali dell’Italia centrale, ma non solo. Di grande interesse è un altro parallelo fonetico, che riguarda da vicino noi Veronesi e i Vicentini. Infatti, come sa bene qualsiasi abitante della città berica, nessun verbo vicentino termina con una consonante, ma con una vocale, che diverge dalla -o del veronese medievale per fissarsi sulla -e (quindi, p. es., vìvere o vìvare «vivere», finìre «finire», catàre «trovare», dire «dire», rassàre «raschiare», ecc.). Le province di Verona e Vicenza formano un’unica zona con questa caratteristica, in mezzo al mare di parlate settentrionali che la ignorano…

Giovanni Rapelli

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