9. Il tramonto della civiltà cimbra

…a cura di Aldo Ridolfi

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   Cimbri della Lessinia

   9. Il tramonto della civiltà cimbra

   Il Cinquecento rimane ancora un secolo particolarmente felice per la Lessinia. Secondo Marco Pasa, in questo secolo si costruiscono nuove chiese, si tracciano altre strade, si sviluppano le contrade, alcune famiglie lessiniche acquistano immobili in città; insomma, si assiste a un tenore di vita elevato, almeno in riferimento ad un certo numero di nuclei familiari.

   Però compaiono anche i primi segni di una parabola che inizia la sua fase discendente. A creare le condizioni di una tale progressiva decadenza della civiltà cimbra concorrono diversi fattori quali l’aumento della popolazione che avviò il fenomeno dell’emigrazione; l’infittirsi di carestie che convinsero i lessinici a spostarsi in luoghi ove ritenevano essere più facile sopravvivere; l’usanza dei matrimoni misti che costituì un elemento capace di intaccare l’unità culturale della plurisecolare colonia. Non è nemmeno da sottovalutare il progressivo esaurirsi delle risorse del territorio a causa soprattutto di un disboscamento che non era andato troppo per il sottile. Nella sopravvivenza di una popolazione, infatti, il rapporto popolazione/risorse è tutt’altro che marginale. L’emigrazione, allora, si presentò come valvola di sicurezza nei confronti di prospettive future precarie. Si sviluppò, inoltre, grazie anche agli scambi commerciali, una certa dipendenza dalle risorse della pianura la quale, in tal modo, espresse anche un fascino verso cui i montanari non rimasero indifferenti.

   Si è parlato, a proposito dell’emigrazione dalla Lessinia, di “diaspora”, mutuando il termine dalla storia degli Ebrei. E certo il concetto di dispersione è rispettato se Giovanni Rapelli poteva concludere, ancora nel 1978 e «sulla base dei cognomi rilevabili nella rubrica telefonica», un suo studio affermando che «i cognomi cimbri tredicicomunigiani sono assai più numerosi al di fuori dell’area dei XIII Comuni che non al suo interno».

   Esiste ovviamente una documentazione di tutto rispetto che conferma lo spostamento dalla montagna veronese. Solo seguendo lo storico Carlo Cipolla (sto utilizzando anche per questi esempi uno studio di Rapelli) si apprende che un curato di Erbezzo, in uno scritto datato 28 dicembre 1616, «testifica che nei ventitre anni della sua curazia avevano abbandonato il paese dieci famiglie»; e Cristiano Carpene, abate a Chiesanuova, asserisce che tra il 1577 e il 1617 «lasciarono il paese, per povertà sessantasei persone». L’emigrazione dalla Lessinia, dunque, conta radici lontane che peraltro arrivano ben dentro l’Otto e il Novecento (per certi aspetti, ha ripreso proprio negli ultimi anni, ma questo è tutto un altro discorso).

   Ma il dibattito sembra ancora aperto sulla data di tale diaspora che forse data non ha trattandosi di movimento complesso e variegato non sempre riconducibile a schema preciso e definitivo. Portandoci poi ad epoche più vicine a noi, gli studiosi segnalano come tappe importanti di questo fenomeno sia l’arrivo dell’amministrazione piemontese sia l’“apertura”, resa possibile dai movimenti militari legati alla Prima guerra mondiale, sia, infine, la rivoluzione epocale degli anni Cinquanta.

vecchia contrada

Vecchia Contrada

Aldo Ridolfi (Continua)

 

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