32. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’Estate – La raccolta del fieno”.

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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         32. La raccolta del fieno

L’estate è la stagione della fienagione. Oggi, come ieri, come negli anni Cinquanta. Era operazione della massima importanza perché garantiva la sopravvivenza dei ruminanti nelle stalle durante tutto l’inverno, fino al maggio successivo. L’abate ne era consapevole e penso lo fossero anche i montanari che egli racconta. La stanza XLVIII racchiude in otto versi, magistralmente, alcune dinamiche di questa fondamentale operazione agraria. La riporto integralmente data la sua trasparenza linguistica e lessicale.

Se ’l vuoi di grato odor, s’ ami far lieti
i buoi col fien, sì come l’orzo suole,
tra ’l maturo, e l’ acerbo il prato mieti,
e guarda il ciel se ti promette il sole.
In un sol dì, s’altro destino no ’l vieti,
tagliar, seccare, e via ripor si vuole.
È il fieno della stalla il nervo primo,
come il son de’ tuoi campi i bovi e ’l fimo.

Sopravvivono in questa ottava un mare di emozioni giunte fino agli anni Cinquanta, oggi irriconoscibili se non ad una fascia di pochi anziani. Intanto l’odore che il fieno emana accompagnato dall’aggettivo “grato”. L’odore del fieno era noto a tutti, a bambini, vecchi e donne, e lo era anche nelle sue varianti: una cosa era l’aroma che esso emanava appena la falce lo aveva tagliato, un’altra era il profumo che diffondeva nell’aria quando era secco e lo si rigirava per caricarlo e condurlo al fienile. Dunque, si diceva, il “grato odor”: difficile dire a cosa alludesse l’abate utilizzando l’aggettivo “grato”. Certo, penso al piacere immediato del profumo di fieno, caro agli uomini perché prospettava un inverno più sereno e caro agli animali che di quel fieno – e di quel profumo – si cibavano. Ma la gratitudine più grande era che quel fieno avrebbe mantenuto le bestie per tutto l’inverno.
Ma perché il fieno potesse avere questo appetitoso aroma, questo invitante profumo, era necessario che il montanaro rispettasse alcune regole sulle quali la didattica dell’abate non transigeva. Innanzitutto era necessario falciare al momento giusto, come bene indica il verso 3: «Tra ‘l maturo, e l’acerbo il prato mieti». Come per il frumento, per le mele, per le verdure, anche per il fieno c’era il momento esatto della maturazione che tutti un tempo sapevano individuare con precisione. Il fieno vecchio, raccolto in luglio-agosto e non in maggio-giugno perde sostanze, diventa un poco legnoso e arido.
Lorenzi aveva presente una situazione ideale: in un solo giorno bisogna «tagliar, seccare, e via ripor». Operazione non certo facile soprattutto in collina quando, in maggio e in giugno, appena dopo pranzo è quasi la regola che arrivi un sgoassoto, una pioggia, cioè, breve, improvvisa e talvolta anche pesante. Bello e ingrato compito quello che Lorenzi assegnava al montanaro! Quante corse, quante maledizioni per riuscire a proteggere il fieno mezzo secco, sottrarlo alla pioggia che lo scolorisce, che lo impoverisce e gli fa assumere un odore che non è più il profumo “grato” di cui in apertura dell’ottava l’abate discorreva.
Povere economie di un tempo, quando nel Pacifico non c’erano le isole di plastica né le microplastiche negli stomaci dei pesci.
Infine in due versi, gli ultimi, la lode al fieno: elemento fondamentale della stalla così come i buoi e il letame (fimo) lo erano per i campi. Per affrontare l’inverno, diceva un vecchio montanaro, è necessario fen sul ciuso e legna soto el portego (un fienile colmo di fieno e una buona scorta di legna).
Non sarà stato chiedere troppo, spero.

(Aldo Ridolfi, 6 continua)

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