18. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’agricoltura, da divertimento a pena”.

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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18. “L’agricoltura, da divertimento a pena”.

Già, alla prossima puntata si diceva, ma la musica non cambia. Tra rimbrotti, dolci inviti e perfetti sillogismi Lorenzi ha deciso di non lasciare tranquilli quei montanari. Ozio colpevole o dannosa inerzia sono malattie che non devono attecchire in questi uomini. Ne va non solo della loro salute e del cibo da portare sul desco, ne va anche del loro onore. Lorenzi si dimostra preparatissimo: non c’è angolo del podere in cui, trascorso l’inverno, non sia necessaria la mano saggia e operosa dell’uomo. La cui opera diventa essenziale per il mantenimento degli equilibri del territorio, per migliorare le culture, per procurare il necessario alla famiglia.
Incominciamo dalle viti? Bene incominciamo da lì, ché siamo in Valpolicella e poi Lorenzi ci tiene molto, dedica loro più di una stanza e si dimostra preciso, competente, meticoloso. Il vigneto non può essere abbandonato mai, l’attenzione deve essere costante e competente. Là dove le viti sono state tolte nella stagione precedente:
                                                   Fosso novel convien che s’apparecchi
                                                          ove le viti un dì rimosse furo.
                                                                               …….
                                                  Or debbon altre a loro succeder dopo
                                              ma prima il sito a preparagli è d’uopo. (VII)
Esiste un “protocollo” che non può essere superficialmente ignorato, pena il pessimo risultato colturale: si provveda a sostituire le viti mancanti, ma prima si prepari adeguato fosso.
Ma c’è dell’altro da fare. Quelli non erano tempi di monocolture, allora la salvezza veniva proprio grazie ad una varietà di produzioni che insieme concorrevano a sfamare le famiglie. Come del resto è accaduto fino agli anni Cinquanta. Dunque:
                                                 Il Pero, il Pomo, il Gelso anche vi chiama
                                               a cavar fin che è tempo a lui la buca. (VIII)
Certo, perché la primavera è stagione di trapianti per elezione. E l’operazione deve essere portata a termine prima che il ciclo vitale della pianta riprenda. Per non trovarsi con l’acqua alla gola è d’uopo preparare anzitempo la buca entro cui collocare alberi di pero e di melo, essenziali per trascorrere il prossimo inverno. Pan e pomi era cibo da re. Si coltivavano varietà di mele capaci di rimanere intatte nei granai fino al marzo successivo.
Ma da un’altra parte incombe la siepe che deve circondare l’orto da ogni lato (IX). E ove il terreno è un po’ più fragile certamente durante l’inverno si è verificata qualche piccola frana o semplicemente il terreno è smottato verso il basso: la legge di gravità ha evidenze anche senza formulazioni libresche. Ebbene, o agresti:
                                                  V’aspetta qualche sponda ove discende
                                               la terra, e al poggio suo non fe’ ritorno. (IX)
È del contadino il compito di riportare la terra donde è venuta, di ripristinare declivi e alzeri , di non darla vinta alla gravità newtoniana.
E attenzione perché se non si rispettano le leggi biologiche:
                                                       Lazze maturan l’uve su i tronchi
                                              Fra le spine cresciute, e i steril bronchi. (XII)
Se invece si seguono i buoni dettami dell’agricoltor esperto:
                                                 Tosto avverrà che a quel lavor mercede
                                                  renda la ristorata erma pendice. (XIII)
Il pistoiese Cosimo Trinci, presso a poco in quegli stessi anni, dava alle stampe L’agricoltore sperimentato ove individua le radici delle fatiche degli agricoltori, eccole:
«L’Agricoltura, che dovea essere, più che occupazione, divertimento dell’Uomo nello stato dell’innocenza, fa della disubbidienza del primo nostro Padre la pena.» Non è proprio la visione di Lorenzi, questa, ché il predicatore di Mazzurega non riteneva l’agricoltura proprio una maledizione, ma le chiacchiere giravano, più o meno sottovoce, e il povero Adamo poco poteva contare su difensori d’ufficio. Così accadeva anche negli anni Cinquanta quando dei generi letterari della Genesi poco o niente si sapeva in campagna ma le responsabilità di Adamo erano ben chiare nei pensieri e nelle parole dei nostri padri e dei nostri nonni.

(Aldo Ridolfi, continua)

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