13. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “Altri lavori invernali: le marogne”

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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  1. Altri lavori invernali: le marogne

Ma i lavori invernali non si riducono certo alla cura del bosco, attività che Lorenzi, come abbiamo visto nella puntata precedente, non prende molto in considerazione. La lista dei lavori stagionali, per il nostro inesauribile abate è molto lunga, vediamone alcuni altri momenti.
Innanzitutto in collina è necessario effettuare una manutenzione attenta e costante dei terrazzamenti che hanno bisogno, per non franare, dei muretti, o muricce, come le chiama l’abate. Se sono franati, bisogna immediatamente porvi rimedio. Così egli racconta nella stanza XLI:

Il mastro intanto e di tal opra esperto
al muro da piantar saldo e profondo
segna il confine, e’l pigro suolo aperto,
cerca ove sieda più securo il fondo.

Da noi, muretti – a dire la verità chiamati con voce locale marogne, – se ne sono costruiti fino dopo l’ultima guerra. Qualcosa hanno visto anche i bambini della mia generazione, nati negli ultimi anni del conflitto, o subito dopo. La divisione del lavoro non era esasperata come lo è oggi, ma un mastro muratore, o preteso tale, c’era comunque. C’era qualcuno che “dava una dritta”; c’era una discussione, si ascoltavano varie proposte, si mediava; “il progetto” era tutto nella testa e completamente assente sulla carta; il risultato era un successo comunitario. Che finiva con un bicchiere di vino buono, con allegre risate, con sguardi soddisfatti. Ma quel che di bello c’era in quel lavoro era il “chilometro zero”, che non è, dunque, un’invenzione di oggi. Le pietre per la costruzione dei muretti venivano prese sul posto o dallo spietramento del campo, o dallo stesso fosso per gettare le fondamenta del muro o da una cava collocata a poca distanza: 20-30 metri, giusto per dare la dimensione del tragitto. Davvero i sassi non venivano dall’altra sponda dell’Adriatico.
Nella stanza successiva Lorenzi mette in rima tutto questo:

Ferve il lavor: chi spezza, chi in giù tira
pietre immense con macchine e con rote,
al cedente terren saldo riparo,
chi i sassi aduna che dispersi andaro.

Quando si parlava di “macchine”, intendiamoci bene, si intendeva la leva o i rulli in legno sui quali far scorrere le pietre più grosse, o di verricelli manuali nelle situazioni più fortunate. Li abbiamo visti all’opera i nostri padri o i nostri nonni con leve di ferro del peso di venti chilogrammi infangati fino al collo, sistemare sassi per terrazzare terreni altrimenti inutili per le coltivazioni. Alla fine c’era anche una fruizione estetica, il senso di un avvenuto recupero ambientale, la coscienza di aver ridato vita al campo:

Allor crescere il campo si rimira
fatto superbo di novella dote,
e se morto si giacque, ora respira.

Con il suo lavoro il montanaro rimette il campo nelle condizioni di poter dare frutto, migliora il paesaggio, fornisce nuovo capitale che impreziosisce la proprietà. Dopo gli anni Cinquanta questo tipo di lavori non si è più visto, ma qui sulle nostre colline a metà del secolo sono arrivati, esattamente come li descrive Lorenzi. È ancora possibile, nonostante l’invasione del bosco, nella stagione invernale, dopo leggere spruzzate di neve, intravvedere le tracce delle ultime marogne costruite, a secco, con mastri improvvisati e nel tentativo di ricavare tanti piccoli spazi all’agricoltura senza mettere a rischio la stabilità del terreno.

 (Aldo Ridolfi, continua)

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