29. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’Estate – Meteo e frumento”

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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         29. Meteo e frumento

Tra le coltivazioni fondamentali per gli abitanti delle nostre colline vi era il frumento, prodotto in grado di salvare la vita dal rischio di pericolose ma, ahinoi, frequenti carestie. Leggiamo con calma e con attenzione e anche più volte questa stanza che principia con toni pacati, rilassati, perfino ottimistici ed è rivolta al contadino:

Deh pigro almen non sia quando rimiri
curva su ’l campo mormorar la spica.
Sai quanto il ciel volubile s’aggiri,
come perda un momento ogni fatica;
e rammenti i dolor forse, e i sospiri
del mesto anno, in cui grandine nemica,
mentre aguzzavi i ferri, in ciel s’accolse
e la sperata gioja in pianto volse. (stanza LXXXII)

Il rimbrotto iniziale, “pigro”, lungi dall’essere una precisa accusa, è invece una cameratesca e innocua ironia; il “rimirar” è lemma con valore estetico e “la spica” mormora; il mormorare è del vento leggero tra le fronde degli alberi, è del placido ruscello in primavera, è degli amanti nei momenti più intimi. La bellezza della vita bucolica appare come presagio di eventi piacevoli, speranza di una buona stagione, finalmente. Lo spettro della fame e della carestia rimane relegato sullo sfondo, da cui peraltro mai si allontana definitivamente. E infatti, purtroppo, basta un verso e la prospettiva, per il villan e la sua famiglia, cambia: è il “volubil” cielo il responsabile: vi si accumulano minacciose nuvole e le parole che seguono assumono subito una portata drammatica: rammenta, quella gente, il dolore e i sospiri dell’anno in cui la “grandine nemicala sperata gioja in pianto volse”. La grandine, nei versi dell’abate, colpisce a tradimento, mentre il villan sta preparando gli strumenti della mietitura: “mentre aguzzavi i ferri”. Ed era la disperazione.
Chiunque appartenga alla mia generazione ed abbia trascorso la sua infanzia negli anni Cinquanta in una famiglia di contadini per così dire “collinari”, ha ben stampato nella memoria quanto accadeva. All’insistente rumoreggiare del tuono proveniente da ovest, all’intensificarsi dei lampi, all’alzarsi del vento, al correre degli stessi animali verso gli usati rifugi, aumentava, in pari tempo e in un identico crescendo, una paura viscerale, antica, muta. Si sentiva il suono delle campane che avrebbero dovuto avere la funzione di allontanare la disgrazia della grandine, si accendeva il camino e si metteva sulle braci l’olivo benedetto a Pasqua il cui sottile filo di fumo avrebbe, assieme al suono delle campane, intercesso presso l’Altissimo. Ma se quello era il temporale giusto non vi era rimedio possibile. In cuor suo il contadino era atterrito e l’espressione che usciva da quelle bocche era sempre identica, come una giaculatoria, come un mantra: “El ne porta ia tuto”.
Il professor Ciro Ferrari ha redatto le Osservazioni agrarie per la provincia di Verona dal 1891 al 1900. Ecco come descrive un evento di una portata catastrofica in una pagina relativa all’anno 1897.
«Ma il temporale più terribile dell’anno e del qual a lungo rimarrà il ricordo, oltre che pel momento critico nel quale avvenne, la vigilia della vendemmia, per la straordinaria grossezza della grandine, fu quello del 12 settembre. La direzione al solito da occidente a oriente; passò nella città intorno alle 4.30 pomeridiane. La zona colpita dalla grandine devastatrice fu una stretta striscia larga tra i 2 e i 4 chilometri…
La grandine in taluni di questi luoghi era grossa come gli aranci. Mi potei fare un’adeguata idea della sua straordinaria grossezza dal numero delle tegole (circa 30 mila) che fui obbligato a rimettere in alcune mie case a Caselle.»
Nella prossima puntata leggeremo la stanza successiva che insiste sulla devastazione causata dalla grandine e che riporta l’uomo nella precarietà terrena.

(Aldo Ridolfi, 3 continua)

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