30. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’Estate – Ancora sulla grandine”

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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         30. Ancora sulla grandine

Nella stanza successiva, la LXXXIII, l’abate riprende il tema della grandine e lo fa con l’impostazione della stanza precedente: apre con la rigogliosa  bellezza del campo di frumento, gioia e speranza della famiglia, e trapassa subito a descrivere l’incubo che si fa strada dopo la grandinata. Infatti:

Fiera vista crudel! la ricca messe
che da un margine a l’ altro il campo empiea,
e a un fiato di vento che sorgesse
con onde d’oro fluttuar parea,

Il “crudel” del primo verso già anticipa il dramma; il ricordo del campo ammirato fino ad un’ora prima se da un lato ci svela la soddisfazione del contadino, dall’altro rende ancora più drammatica la sequenza che segue. Ma fermiamoci un attimo a godere di questi quattro versi stupendamente bucolici, capaci di risvegliare anche i nostri ricordi. La messe è “ricca”, aggettivo che qui vale abbondante e nulla ha da spartire con la ricchezza epulonica essendo un benessere collegato solamente al soddisfacimento di un bisogno primario, il cibo. Nessuna finanza creativa, dunque, si nasconde dietro questo concetto. Segue l’immagine del campo zeppo di frumento, ma il clou Lorenzi lo ottiene accostando l’oro alla spiga. Noi, negli anni Cinquanta, si era bambini ma non si ignorava che il chicco di grano era stato sotterrato nell’autunno precedente, che aveva “dormito” tutto l’inverno, che era cresciuto con le piogge primaverili e che ora, in giugno, era giunto il momento di raccogliere quelle spighe turgide, pesanti, auree appunto, che ondeggiavano magicamente sotto le brezze della stagione.
I restanti quattro versi capovolgono realtà, immaginazione e stati d’animo:

mirar, sotto il rio nembo che l’oppresse,
perduta ogni beltà che prima avea,
chinarsi al suol, né i colpi fuggir anco,
che gli fiedono il capo, e ’l fragil fianco.

Termini carichi di forza negativa si susseguono e, riprendendo quella «Fiera vista crudel» del primo verso dell’ottava, raccontano il dramma. Il nembo non è solo un sinonimo di nuvola, è piuttosto una nuvola grossa e scura apportatrice di pioggia violenta e di grandine, perciò Foscolo parla dell’“insultar de’ nembi”. E tale nembo è “rio”, oggi termine in disuso, ma pregno di forte connotazione negativa avendo esso significato di crudele, malvagio oltreché, naturalmente di colpevole. Ed esprime la sua forza devastante opprimendo il campo di grano. La sua energia è tanto più schiacciante quanto più indifese – «né i colpi fuggir anco»- sono le spighe giunte a maturazione, pesanti e fragili, le quali chinano il capo ferite (“fiedere” = ferire).
Dopo la grandinata «la campagna aveva un aspetto lugubre, il verde prima traboccante non esisteva più. Il granone abbattuto, stracciato nelle larghe foglie…»: così Giovanni Comisso. De Amicis vi coglie anche una terribile beffa: «Poi tutto tace, e sulla gran ruina / perfidamente il cielo ride.»
Poteva accadere che il fortunale passasse con pioggia intensa e vento forte ma senza grandine. Allora gli uomini si affacciavano sulla porta raggiungevano il cortile e annusavano l’aria. Poteva succedere che avvertissero un indecifrabile odore di foglie o di erba pestata dalla grandine: voleva dire che nei dintorni la grandine era arrivata e abbondante. Allora la gioia per lo scampato pericolo si spegneva perché la tempesta, anche quando cadeva sul podere degli altri, rimaneva una ferita profonda, un tradimento inaccettabile, una tristezza condivisa. Così, senza sermoni né astuzie didattiche, ma a cospetto di ciò che è vero e reale, si imparava un poca di solidarietà.

(Aldo Ridolfi, 4 continua)

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