5. Le opere degli uomini
…a cura di Aldo Ridolfi
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Giuseppe Luigi Pellegrini, Abate e Conte, in escursione al Ponte di Veja
5. Le opere degli uomini
Se la natura, nella costruzione del Ponte, è “dedala”, è cioè dotata di gusto artistico e di ingegno da consentire il paragone con il mitico architetto Dedalo che progettò il labirinto per re Minosse, a Creta, non sono da meno «le doppie torri di Cuzan» che bastano, nella loro semplice citazione, nella loro isolata regalità e poste all’apertura del racconto (verso 2) a suggerire quanto vi è di grande nella capacità progettuale dell’uomo. Una settantina di versi più avanti il conte-abate riprende le immagini regali delle dimore nobiliari, eccole: «eccelse torri, e logge colte, e ville / d’archi, di statue, di giardin, di fregi / lucide, e adorne, che dovunque sparse / traspajon fuor de i boschi oscuri, e l’ampio / ingemman di splendor piano selvoso».
Ma – sembra dire Pellegrini – sia sufficiente questo richiamo, perché non è di ciò che in questa occasione conviene parlare. La passione per la natura, per il paesaggio agreste, per la bellezza autentica che promana da tutto ciò che è rustico fa volgere lo sguardo del poeta altrove, gli fa abbandonare le doppie torri e le residenze principesche. E volge il suo sguardo verso ciò che, nel corso del viaggio, scopre di altissimo: il mondo degli uomini semplici, dei montanari.
Ecco allora apparire «un ermo villaggio» che «in tra i monti s’asconde». Già le ali leggere del dire poetico trasportano in una dimensione primitiva ma autentica, antica e perciò vicinissima alle origini. In quell’«ermo villaggio» c’è già tutto: la felice solitudine, la dimensione umana, il fascino del primitivo. L’ermo villaggio è Giare: oramai la discesa su Veja è cominciata e se quel «umili tuguri» che descrive le abitazioni della contrada ci può sembrare l’immagine fotografica della miseria e della marginalità sociale, in realtà, stando alle parole dell’abate, non è così, non c’è, in quelle abitazioni di sassi, di terra e di paglia, nulla di dispregiativo. Anzi, l’insistere sull’arredo di quelle case – il «rozzo legno» del tavolo, le «coppe di creta informe» – pare quasi il desiderio di portare alla luce valori dimenticati, nascosti, ignorati. Essi – gli oggetti e i valori che vi si accompagnano – diventano elementi essenziali per capire, amare e rispettare un’umanità così lontana e così diversa ma anche così vera.
Tale è il rispetto che Pellegrini sente da indurlo a impetrare Giove affinché nessun evento atmosferico possa mettere in pericolo quelle umili dimore e la vita difficile dei suoi abitanti. Piuttosto «piombi il fulmin su le ardite torri della città» (p. 50), e giù un’invettiva contro la loro mollezza.
Ma le opere dell’uomo non si limitano ai palazzi e ai villaggi montani. Dal «balzo d’Alcenago» si apre la vista sulla Val Polisella: non resta che «rimirar attoniti l’incanto». Che è composto da «vitiferi colli gli uni, / e di biade dorati», dal verdeggiar di «ulivi ai tordi asilo», perfino da «ruscelli, / che serpeggiando per erbosi prati / cari a le gregge, ed a i pastor, con lento /mormorio destan le zampogne». Nessuna cesura, nessun groppo, nessuna barriera pare frapporsi tra la mano dell’uomo e quella della natura; nessuna iato pretende di separare due dimensioni che da quel balcone privilegiato che è il «balzo d’Alcenago» appaiono in perfetta consonanza, esprimono un reciproco piacere.
Chi o che cosa potrà distrarre il buon abate dalla contemplazione di simili ardite opere messe a punto dall’uomo e dalla natura finalmente insieme? Chi se non, ancora una volta, Dimice? E infatti, e infatti «Ella in quel mi si volse, disadorna / com’era allora; se non che più ardenti / rubin mostrava il roseo viso, e perle / schiudea più bianche la vermiglia bocca…»!
Diciamo la verità, un po’ ci dispiace a non essere stati anche noi della compagnia!
Aldo Ridolfi (continua)