4. La natura

…a cura di Aldo Ridolfi

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Ponte di Veja

Giuseppe Luigi Pellegrini, Abate e Conte, in escursione al Ponte di Veja

   4. La natura

   Appena superato il «Balzo d’Alcenago» ecco «aprirsi ampia pianura» e tutti correre «a rimirar attoniti l’incanto». E l’incanto è fatto di colli aprichi coperti di viti e dorati di biade, «folti d’olmi» o di «fronzuti cerri… e verdi ulivi ai tordi asilo» e di «cespi d’umil ginepro». E poi ancora rivi e ruscelli, erbosi prati e greggi: «E’ questa la valle Policella: altero nome non ignoto oltre il mar». Dalla dorsale su cui sorge Alcenago, gli escursionisti settecenteschi possono dominare anche la Valpolicella alla quale riconoscono grande fama essendo, appunto, nota anche oltre il mare.

   E’ la magia della natura che irrompe, che fa breccia nella sensibilità tardo settecentesca dell’abate Pellegrini. La natura gli appare come dono divino. Non è indifferente all’uomo né lui lo è nei confronti di essa. La natura non è matrigna, è semmai dimensione idilliaca, piacevolezza, motivo di felicità. Quella natura – peraltro risultato anche del lavoro umano – conforta e incoraggia; incontrarla vuol dire rimanere «attoniti», restare estasiati. Vi è, nello sguardo dell’abate, un elegante edonismo. Già all’inizio questa visione arcadica si disvela nell’immagine della Valpolicella e prosegue nello sguardo che accarezza colline e gioghi montani. Proprio il quegli anni Ippolito Pindemonte scriveva (in Prose e poesie campestri): «Fonti e colline / chiesi agli dèi: m’udirono al fine, / pago io vivrò». Nella sensibilità di questi decenni, accanto al sentire illuministico, cui Pellegrini per altri versi non è estraneo, insiste questa esigenza di dolcezza e di serenità che trova nelle forme, nei colori, nelle atmosfere paesaggistiche un contributo ineliminabile alla piacevolezza della vita.

   Ma una tale visione idilliaca della natura, capace di predisporre l’uomo a dolci pensieri, lascia spazio a poco a poco anche ad un altro volto, ed ecco allora comparire boschi oscuri e «ermi burroni», il «piano selvoso» e l’«orribil antro». La natura mostra dunque la sua duplice personalità. Non più solo vivaci quadretti campestri e abbondanti frutti, ma anche lati oscuri: orridi paesaggi, boscaglie e burroni. Essa, qui, non è ancora matrigna, ma rivela però una dimensione buia, tempestosa, irregolare, anomala, fantastica. L’abate Giuseppe, giunto al Ponte, vi scorge l’apertura di una caverna che diventa immediatamente un «orribil antro, ch’è di dentro bujo di notte eterna». La caverna, che lo spirito illuministico del Settecento può descrivere con un senso di distaccato rigore è qui «bolgia orrenda», speco ampio dapprima ma subito dopo profondo e cupo e nido di «sozzi augelli», i pipistrelli che trovano nelle caverne la loro dimora diurna abituale.

   Insomma, se l’abate Giuseppe Luigi Pellegrini inizia il suo viaggio da Romagnano al Ponte di Veja sotto i migliori auspici di una natura arcadica e gentile, generosa di abbondanti doni e di paesaggi improntati ad un calmo e gioioso sentire, lungo il tragitto incomincia a prendere atto di una dimensione più aspra e meno generosa – e tuttavia affascinante – di essa, e quando, alcune ore più tardi, giunge al Ponte, la sua fantasia si lascia prendere dal fascino romantico e sublime del luogo che avvolge, assieme al suo sentire, anche la sua persona che diventa, in quell’orrido luogo, parte attiva, protagonista, e non più solo spettatore, osservatore e cantore.

   Una duplice dimensione della natura sarà ancora più evidente, come spero ci capiterà di osservare più avanti, nella tragica storia dell’infelice amore di Veja e Cereo.

Aldo Ridolfi (continua)

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