25. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “Commiato (dalla “Primavera”, in attesa dell’“Estate”)”
…a cura di Aldo Ridolfi
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25. “Commiato (dalla “Primavera”, in attesa dell’“Estate”)”
A conclusione del “ciclo primaverile” propongo tutti di seguito gli otto versi dell’ultima strofa:
E spero ancor, che nel solingo loco
meco fuggendo alcun le civil frodi
s’innamori de’ campi a poco a poco,
e sdegni ogn’altra vita, e questa lodi.
Chi sa che contemplando il vario gioco
del ciel, de l’aere, e le cagioni, e i modi,
quel che l’ingegno mio vieta ch’io mostri,
ei non dipinga in più felici inchiostri? (CLV)
È la stanza 155 (alla fine le conteremo!). Lorenzi si congeda, per così dire, da “La Primavera”, il secondo canto del suo immenso poema. Siamo sulla linea di quanto affermato nel congedo dall’”Inverno”: sopra ogni cosa c’è la “voglia di villa”, il desiderio di una vita felice, serena, agreste, laboriosa, rispettosa, onesta. Onesta, sì, ché la campagna, diversamente dalla città, è emblema di vita autentica, lontana, lontanissima dalle civil frodi, ove “civile” ha il senso di “cittadino, appartenente alla città” di contro a “rustico, appartenente alla campagna”. E dunque la vita nel contado assume anche un alone etico, un superiore orizzonte meditativo.
L’abate non perde occasione per ribadire il suo amore per la campagna. Lo fa, giusto per fare un esempio, ancora una volta in una lettera al conte Marcantonio, con il quale era in fitta corrispondenza, il 9 ottobre 1819: «Pure me la vo passando molto meno male certamente in questa mia povera solitudine, che non potrei nella civile frequenza.» E accomuna così il sentimento della solitudine – frequentissimo – con un certo “rancore” per la vita cittadina. E tuttavia la solitudine un poco lo opprime se auspica che alcun meco fuggendo… / s’innamori de campi… / e sdegni ogni altra vita. L’augurio che Lorenzi fa a se stesso è, alla fine, che tutto ciò in cui ha creduto non rimanga un guadagno esclusivo della sua lunga esistenza, ma possa dare vita a una qualche imitazione, in un possibile proselitismo. Un aiuto ad attrarre poeti dovrebbe venire dalla bellezza del cielo che sovrasta le amene colline di Mazzurega e della Valpolicella tutta, dalla salubrità dell’aria che quelle lande così ben coltivate garantiscono ai loro abitatori, e dal gioco infinito che la natura regala a chi ha il coraggio di vivere lontano dal civil consorzio.
Ma l’auspicio di Lorenzi va ancora oltre. Da uomo di lettere qual è, spera che accanto all’amore della campagna in quell’auspicato discepolo si affianchi anche la passione per lo studio e per la scrittura. Egli, qui, non sta pensando tanto all’arador o al villico, quanto all’intellettuale. Possa dunque disporre quell’alcun del verso 2 – che è anche l’ei del verso 8 – di più felici inchiostri per dipingere – cioè raccontare – quel mondo contadino villico e lavoratore, sereno e onesto.
Così l’abate licenzia “La Primavera”, e così ci accomiatiamo anche noi, ma non prima di aver formulato altre due osservazioni senza muoverci dalla 155° stanza. Innanzitutto la metafora stupenda in più felici inchiostri che allude ad un possibile altro poeta che possa raccontare ancor meglio di campagna, di attività, di persone. In seconda battuta, ma strettamente legata, è di nuovo la dichiarazione di umiltà che l’abate evoca: quel che l’ingegno mio vieta ch’io mostri. Che mi pare immagine trasparente: i limiti del suo ingegno poetico gli impediscono, gli “vietano” di meglio raccontare la vita agreste. Così Lorenzi ribadisce, anche con il conte Marcantonio, che ogni ingegno è subordinato ai superiori sentimenti della stima, della modestia e dell’amicizia: «Questa lettera è lunga non per abbondanza di forza né d’ingegno, che io non ho, ma di quel piacere che sento a trattenermi con un amico». Analogamente, scrivendo a Silvia Curtoni Verza, della contessa Emilia Carminati dice: «Non posso dimenticarmi della soavità d’un ingegno congiunto ad una singolare modestia… una virtù ancor più nobile dei natali».
Mah! Forse modestia e nobiltà hanno tutto il diritto di accompagnarsi anche sulle strade della poesia, o forse no, forse si tratta di un apparentamento falso e tirato per i capelli. C’è sempre la possibilità, realistica questa, di seguire Ippolito Pindemonte nel suo Elogio del marchese Scipione Maffei, là dove dice: «Taluno svilirà un proprio lavoro, non perché bello nol creda, ma perché vede col gusto più là del termine a cui arrivò con l’ingegno».
Con questi dubbi, che peraltro sono anche riflessioni di vita, attendiamo “La State” del nostro oramai amato abate Lorenzi.
(Aldo Ridolfi, fine)