4. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: L’abate Bartolomeo Lorenzi, seconda parte

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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4. L’abate Bartolomeo Lorenzi, seconda parte

Conclusa la lode iniziale, del Bene ricostruisce una biografia dell’abate Bartolomeo Lorenzi in termini consoni a farci conoscere persone e fatti. Quella noi seguiremo.
Lorenzo e Francesca Ganascini sono i genitori. Hanno quattro figli: Francesco, pittore e agronomo; Lodovico, sacro oratore; Bartolomeo e Giandomenico che «tutto si diede ai domestici affari».
Bartolomeo vede la luce a Mazzurega, «villaggio che signoreggia con prospetti amenissimi la nostra Valpolicella», il 4 giugno 1732. Studia le umane lettere nel Seminario dei Chierici di Verona e prende l’abito clericale. A ventuno anni insegna retorica nello stesso istituto. Intanto traduce Orazio e altri poeti latini. Ciò fa estemporaneamente, dentro le mura della scuola, mai si avventura in pubblica prova. Ma gli capita presto di doversi confrontare «nel periglioso cimento, e ne uscì con onore». Con il passare del tempo – «dopo non lungo esercizio», annota del Bene – oltre che arricchirsi di «svariate dottrine», le maneggia «con felicissima vena poetica».
Da prova dell’eloquenza che professa da sei anni con un’orazione latina per il vescovo Nicolò Antonio Giustiniani. È il 1759 e l’orazione viene nello stesso anno data alle stampe. Dopo sei anni di lavoro lascia la cattedra al Seminario per fondare una scuola privata in casa propria «senza le noje d’una autorità mal concorde, che gli era stata molesta».
Nel 1769, in occasione dei funerali solenni in San Zeno di papa Clemente XIII, Lorenzi tiene le lodi del defunto con una «eloquente e tersa orazione latina», anch’essa data alle stampe.
Poco dopo arriva a Verona a reggere la città «il patrizio Andrea Dolfin» il quale affida immediatamente il suo figlioletto a Lorenzi perché lo educhi. Allo scadere del mandato, Dolfin ritorna a Venezia portandosi con sé il Lorenzi, il quale, nella città lagunare, rimane per circa quattro anni approfondendo discipline come fisica, chimica, agricoltura, storia naturale e civile e mitologia in modo da potersi destreggiare «in ogni cimento di poesia estemporanea». Quando il Dolfin deve prendere servizio a Parigi, Lorenzi – ritenendo i suoi legami al patrizio veneto «troppo abbietti» – ritorna a Verona.
Intanto la sua fama cresce, tanto che viene invitato a Milano dall’arciduca Ferdinando d’Austria. Colà Lorenzi deve confrontarsi con il Mollo nell’improvvisazione poetica.
Tornato a Verona dopo la pausa milanese, inizia la scrittura de Della coltivazione de’ monti che porta a termine nel 1778 e che dedica all’arciduca Ferdinando d’Austria. Secondo del Bene, quest’opera in ottava rima e composta da quattro canti, tanti quante sono le stagioni, «migliorò quella di Esiodo nell’Opera e i giorni».
Del Bene, certo, ammira l’abate, e a ragione, perché in quel testo non solo riporta argomenti trattati da altri «come i più soglion fare», ma propone al lettore osservazioni sue personali, per così dire inedite.
I suoi precetti agrari, poi, il Lorenzi bada bene di «infiorarli» a dovere. La poesia, infatti, è proprio la sua musa preferita. E qui cade la prima citazione, come è giusto che sia in un elogio. La citazione riguarda la descrizione della costruzione delle “muricce” (i muretti a secco):

«Un andare, un venir, sorger, chinarsi.
Si mirano a vicenda or questi, or quelli:
la materia, e la man, torsi, prestarsi,
far sonar pietre, e tintinnar martelli».

Il lavorio attorno a quei muretti di sostegno dei pendii è reso con vivacità, con entusiasmo, con vivo senso del territorio. Subito seguita, questa prima citazione, da una seconda, una digressione questa volta, come la definisce del Bene, che racconta «le ambasce d’una augeletta, cui furono rapiti i figli»:

«La madre, che trovar i figli crede,
torna con l’esca in bocca a l’arbor fido
e guarda intorno misera, e non vede
altri che il vòto e depredato nido.»

Quando comparve, precisa del Bene, Della coltivazione de’ monti, il poema venne criticato perché «in più luoghi oscuro» e «magro di mitologia». Ma il Morelli – che proprio non sopportava gli eccessi di mitologia e che, anzi, «avrebbe voluto proscriverla da tutti i componimenti di poeti Cristiani» – elogiò Bartolomeo Lorenzi.

Aldo Ridolfi – (continua)

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