L’Alpino: “Scemo di guerra… – 24/6

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

Per le tue domande scrivi a: ilarioperaro@yahoo.it

Scemo di guerra

Racconto liberamente ispirato alla figura di don Primo Discacciati, 
cappellano militare all’Ospedaletto di Storo dal 1915 al 1918.

ERANO PARTITI DA STORO ALL’ALBA

Giovedì 21 giugno 1917

(…continuazione)

VENEZIANI GRAN SIGNORI – PADOVANI GRAN DOTTORI …

Si fermano all’imbocco di una lunga serie di volti che conducevano alle prigioni scavate nella pancia del forte. Il colonnello Icaro Tomasi, stringendo sotto al braccio il fascicolo che aveva nervosamente sciupato durante l’incontro di poco prima, riaccese il mozzicone di sigaro che gli pendeva dalle labbra, si girò a guardare con occhi seri don Primo e il giovane Alcide e aprì bocca.
«Gli ordini per entrambi sono semplici e chiari, oltre che pochi» sibilò con quella sua voce cavernosa e roca. «non dovete mai parlare con alcuno di quel che vedrete e sentirete qui al forte. Se uno dei due o entrambi tenete un diario, vi è fatto divieto di scrivere spunti o note oppure resoconti. Sarete lasciati soli… Tu come ti chiami?» Chiese rivolto al giovane aiutante.
«Alcide Ferretti.»
«Alcide Ferretti, signor tenente colonnello!» Sbraitò il graduato con faccia feroce.
Il ragazzo non fece una piega: «Alcide Ferretti, signor tenente colonnello!» Ripeté con voce piana e fredda.
«Sai sparare?»
«Ai fagiani e alle volpi di sicuro.»
«Per sparare a un uomo fai quasi la stessa fatica. Prendi questa pistola e se il tuo sacerdote sarà in pericolo di vita, spara senza pietà. Hai capito bene?»
«Sì… Certo, signor tenente colonnello! Ma noi ci dovremmo…»
«Non puoi chiedere nulla, Alcide Ferretti» lo interruppe il comandante. «Nulla, va bene? Verrete lasciati soli» ripeté poi, a beneficio di don Primo, che aveva seguito un po’ preoccupato il battibecco fra il giovane e l’ufficiale. «Non sarà una bella esperienza, ma questo ormai penso l’avrete capito. Tra un minuto vi presenterò Sergio Babbolin, fante alpino che viene da vicino Padova: mentre era al fronte su, nelle trincee del Pasubio, venne accusato d’essersi amputato l’indice della mano destra nel tentativo fallito di essere riformato e rispedito a casa. Processato e condannato dalla corte marziale a vent’anni di carcere, per sfuggire alla giusta pena ha finto d’essere impazzito. Processato una seconda volta dalla medesima corte, è stato condannato alla morte mediante fucilazione…»
L’ufficiale fece una lunga pausa, quasi per aspettare che i due digerissero quelle novità. Don Primo allora approfittò di quel silenzio per chiedere: «Mi scusi, e io che c’entro? Posso far qualcosa per questo Babbolin? A me non pare di aver mai conosciuto un Babbolin…»
Icaro Tomasi fece un passo verso il sacerdote parlando sottovoce: «Mi sono dimenticato di dirle che il condannato a morte in questione è… è un prete. Come lei. Un prete-soldato che viene dalla bassa padana. Saputo della condanna a morte s’è mossa la chiesa intera, come se davanti ai fucili dovesse andarci il papa! Ha alzato la testa la Curia di Padova e poi quella di Verona, che assieme hanno interpellato monsignor Angelo Bartolomasi, vescovo di campo dallo scoppio della guerra che, dopo essersi confrontato con la curia di Milano e col cardinale Ferrari, ha fatto il suo nome.
“Il cardinale Andrea Carlo Ferrari” pensò don Primo, “quello che mi ha ordinato prete!”
«È la sua patata bollente, questo Babbolin» proseguì il colonnello, succhiando forte nel sigaro quasi spento. «Dovrà parlargli, convincerlo a desistere dalla simulazione che lo sta portando al Creatore, confessarlo, comunicarlo e accompagnarlo all’esecuzione. Questi sono gli ordini!»
Don Primo rimase alcuni istanti in un silenzio penoso. C’era qualcosa che non lo convinceva in quelle parole: «Lei mi sta dicendo, colonnello, che la massima autorità dei cappellani militari, e cioè monsignor Bortolomasi, e il cardinale Ferrari di Milano mi ordinano di far desistere questo Babbolin dalla sua simulazione per poterlo così consegnare ai carnefici, con la coscienza tranquilla perché le regole sono state osservate?»
Gli occhi di ghiaccio dell’ufficiale si chiusero a fessura: «È un tipo astuto lei, don Discacciati, niente da dire! Certo che no» esplose agitando sotto al naso di don Primo il fascicolo che stringeva in mano, «certo che il vescovo e il cardinale milanese vorrebbero che a don Babbolin fosse salvata la pelle e magari anche andar libero con le scuse del comando supremo e della corte marziale! Per fortuna, però, la giustizia militare non la amministrano i preti e i frati, ma i soldati! E questi sono i “miei” ordini, che le debbono bastare!»
Don Discacciati era abituato, nei panni del cappellano militare, a trattare con i graduati di Storo, capitani e tenenti che rispettavano la croce di panno rosso sangue che portava cucita addosso e che gli riconoscevano quell’autorità religiosa e morale che a volte sopravanzava il codice militare. È vero, all’inizio, quando arrivava qualche tenentino di fresca nomina o qualche medico militare pieno di belle speranze e di boria inesperta, i rapporti magari erano un po’ tesi, ma poi ci si capiva quasi subito e spesso lui diventava il confidente, oltre che il confessore, di quei giovani soldati tolti al liceo o al lavoro in ufficio per mandarli al fronte, a comandare sulla vita di altri uomini.
Quell’Icaro Tomasi, invece, aveva appiccicato in testa un odio, un rancore contro la religione… lo si notava dallo sguardo diabolico, ma soprattutto dall’ansia agitata con cui si confrontava con il cappellano militare.
«Vedrò di fare il mio dovere di prete e di uomo fino in fondo, signor colonnello, e mi aspetto da lei e dal suo forte la massima collaborazione!» Aveva parlato alzando un po’ la voce, don Primo, tanto che il Tomasi aggrottò la fronte, gli sbatté il fascicolo tra le mani, girò i tacchi e, andandosene, blaterò al primo soldato che incontrò sul suo cammino furioso: «Accompagna questo prete e il suo aiutante da Babbolin, e fermati fuori dalla porta a far la guardia.»

Ilario Péraro – (6 continua)

↓