L’Alpino: “NIKOLAJEWKA: C’ERO ANCH’IO”… – 50

…a cura di Ilario Péraro

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SEZIONE ANA DI PORDENONE GRUPPO DI BUDOIA
I MIEI RICORDI DAL FRONTE RUSSO Alpino Paolo Busetti. Il diario di guerra dell’alpino Paolo Busetti, reduce della Campagna di Russia e andato avanti qualche anno fa, ricavato dalle sue memorie raccolte da figli e nipoti. Nei suoi racconti non traspare mai odio o rancore, nonostante le sofferenze patite, ma la consapevolezza di aver fatto fino in fondo il proprio dovere per la Patria. Che le sue memorie siano di sprone per diventare cittadini migliori e perché resti vivo il ricordo di fatti e di uomini d’altri tempi.

“NIKOLAJEWKA: C’ERO ANCH’IO”

Sono l’Alpino BUSETTI PAOLO, nato a Santa Lucia di Budoia il 19/01/1922. Appartenevo all’Ottavo Rgt. Alpini-Btg. Tolmezzo, Compagnia Comando e Servizi, Divisione Julia. Il mattino del 26 gennaio 1943 seguivamo la pista che lasciavano i primi reparti in armi. Ad un certo punto ci trovammo ad un bivio: una pista andava a destra ed una verso sinistra. Alcuni soldati tedeschi che si trovavano in quel posto ci indicarono di prendere la pista di sinistra. Dopo circa un chilometro, incontrammo degli sbandati che ci dissero di essere seguiti da partigiani russi. Tra questi sbandati c’era una slitta e su di essa il Colonnello Bianchini. Ritorniamo al bivio e prendiamo la pista di destra ma percorsi 7/800 metri ci fermiamo e sulla sinistra vediamo una slitta con feriti e congelati che sale verso la cima della collina: un colpo di mortaio russo la prese in pieno. Sempre sulla sinistra vi sono due isbe con una porta ed una finestra. L’isba di destra ha, stranamente, la finestra aperta e da quella finestra una mitragliatrice spara raffiche a quanti arrivano sotto tiro. Il Col Bianchini mi fece salire sulla slitta e, vedendo che avevo il fucile, mi chiese se disponevo di munizioni. Alla mia risposta affermativa, mi fece caricare l’arma e sdraiare sulla slitta, dicendomi di fare attenzione alla finestra di destra e di sparare al minimo movimento. All’improvviso arrivò una raffica e Dio volle che fosse bassa e colpì solo la slitta. Vista la mala parata, mi buttai sulla destra in un dosso, dove non mi potevano colpire. Mi incamminai poi verso la collina, ma ai suoi piedi c’era un fossato di 40-50 centimetri, pochi, ma troppi per essere superati con le mie povere e restanti forze. Cercai un passaggio più stretto ed incontrai un alpino che veniva avanti nel senso contrario al mio. Di fronte uno all’altro, ci guardammo in faccia e lui mi disse: “Soto ti?” ed io risposi: ”Seo voi zio?… Le strane coincidenze della vita! Era mio zio, fratello di mia madre, alpino del Tolmezzo, 6° Compagnia. Anche lui cercava un posto adatto per attraversare il fosso, perché aveva una slitta sulla quale stavano tre alpini, due feriti ed uno congelato. Quest’ultimo si chiamava Pusiol Bruno ed era di S. Giovanni di Polcenigo. Ci salutammo e mio zio tornò alla sua slitta, mentre io feci un salto e mi incamminai verso la salita di questa collina, che aveva la forma di una mammella. Avrei rivisto mio zio solo al mio rientro in patria, fortunatamente sano e salvo. Arrivato sulla cima del colle, trovai una marea di gente, alpini, tedeschi, ungheresi, rumeni, uno appiccicato all’altro. Ad una cinquantina di metri c’era un semovente tedesco sul quale stava in piedi il Generale Reverberi, comandante della Divisione Tridentina. Sulla destra c’era un mortaio russo che sparava e faceva sempre centro con tutte quelle centinaia e migliaia di soldati, uno addosso all’altro. Improvvisamente si sentì un rumore sordo che si avvicinava ed ingigantiva: erano tre aerei russi, tre bimotori che volavano a bassa quota.
Il Gen. Reverberi dal semovente grida: “Chi ha armi spari!”. Arrivati sopra di noi e sopra la mia testa sganciarono degli spezzoni e Dio volle che cadessero una ventina di metri più avanti: si udivano urla e lamenti ed un grido “Avanti Edolo, avanti Edolo”. Si vide una colonna di alpini che si dirigeva verso quella maledetta vallata nella quale erano arrivati, già dal mattino, i reparti della Divisione Tridentina che combattevano una dura battaglia, perché i russi erano ben piazzati a ridosso della ferrovia, mentre i nostri dovevano sempre scendere allo scoperto, offrendo facile bersaglio. La battaglia si fece sempre più dura sotto un fuoco di mitragliatrici e mortai e le munizioni dalla nostra parte incominciavano a scarseggiare. Sono le ore 15 ed inizia il calar della luce del tramonto. Il Gen. Reverberi dall’alto del semovente grida: ”Tridentina, Alpini avanti”. Si levò allora un urlo impressionante, quasi disumano da tutta quella massa di sbandati, che si mosse come un rullo compressore verso quella ferrovia, dietro la quale c’erano i russi. I nostri reparti, sospinti da quella massa di disperati ripresero coraggio e slancio per lottare per lo sfondamento del blocco. Anche i russi, allo stremo delle loro forze, incominciarono a ritirarsi ed a sbandare, mentre noi italiani, scavalcato il terrapieno della ferrovia, entrammo in quella cittadina, chiamata Nikolajewka, cercando subito un riparo da quell’inferno di fuoco. Io entrai in uno di quei capannoni che i russi utilizzavano in ogni centro abitato per l’ammasso di orzo, frumento e girasoli. Passammo la notte ed al mattino presto ci siamo rimessi in marcia verso la sospirata Italia. Appena giorno, si era presentato sul portone del capannone un Ten. medico che a gran voce gridava: “Feriti e congelati rimangano qui in attesa dell’arrivo delle ambulanze della Croce Rossa, il resto della truppa si metta in marcia”. Passano tre o quattro ore e di nuovo quel Ten. medico grida: “Chi può camminare segua la pista che sta percorrendo la colonna”. I russi stavano sopraggiungendo! Si possono ben immaginare le urla e le invocazioni di aiuto, ma in quelle tristissime tragiche circostanze non c’era nessuna possibilità di aiuto. Mi trovai vicino al Cap. Magg. Del Puppo di Maniagolibero, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: ”Andiamo”. Lui ferito da una pallottola, io congelato ad entrambi i piedi, senza scarponi, con due pezzi di coperta al loro posto. Si decide dunque di riprendere la marcia sulla pista battuta dalla colonna che era partita al mattino. Fatto qualche chilometro incontriamo delle macchine tedesche vuote; c’era solo l’autista e noi chiedemmo di farci salire, ma loro rifiutarono nonostante le nostre insistenze. Alla fine un’ufficiale intervenne e decise di farci salire ma solo sui larghi parafanghi che avevano quei camion tedeschi. Del Puppo salì a sinistra, io sul parafango destro. Fortunatamente la colonna ogni tanto si fermava, così noi due potevamo girarci, una volta con la schiena, un’altra con la pancia verso il radiatore. Ad una sosta più prolungata chiediamo cosa sia successo e l’ufficiale ci fa cenno che nemmeno lui lo sa. Decidemmo allora di riprendere la marcia a piedi e dopo ore di cammino intravedemmo da lontano alcune isbe. Incontrammo anche dei soldati italiani e Del Puppo trovò alcuni amici e si fermò. Io continuai e più avanti scorsi delle frecce in legno sulle quali erano indicate le posizioni dei battaglioni Morbegno, Edolo della Tridentina e Cuneense. Proseguii il mio cammino e alla fine vidi una freccia con l’indicazione “Julia”, un solo nome: “Julia”. Feci una cinquantina di metri, entrai in un’isba e vi trovai il Capitano Bricco, un sottotenente ed un militare; io ero il quarto. Il Capitano, vedendomi con quei pezzi di coperta ai piedi, volle controllare il mio congelamento ma appena incomincia a togliere il filo di ferro con il quale avevo fissato gli stracci, udiamo delle grida che annunciano l’arrivo delle ambulanze della Croce Rossa. Il Capitano mi fissò nuovamente il filo di ferro ma appena uscii, vidi che l’ambulanza era già al completo, perciò rientrai nell’isba ed il Capitano vedendomi con il fucile, mi chiese di lasciarlo a lui, perché mi disse che da “radio-scarpa” aveva saputo che i tedeschi se trovavano ufficiali italiani disarmati, li rimandavano al fronte. Dopo un po’ di tempo arrivò una seconda ambulanza. Salutai tutti e così ebbe inizio il mio sospirato ritorno verso la mia bella Italia.
Paolo Busetti

Ilario Péraro

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