L’Alpino: “CRISTO CON GLI ALPINI don Carlo Gnocchi”… – 32.3

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Brano tratto dal libro:

CRISTO CON GLI ALPINI
don Carlo Gnocchi 

Ciao paìs

Molti oggetti di ricordo avrei potuto mettere nella cassetta militare quando lasciai il mio primo Battaglione. Ma non volli, temendo di imprigionare la vaga e amabile ricchezza delle memorie nelle cose ferme, materiali e finite. Così ho portato con me soltanto alcune lettere.
Son tutte di mamme di alpini.
Quante ne ho ricevute nei mesi di guerra e quante se ne scrivono al Cappellano militare! Per avere notizie di un figlio che non scrive da troppo tempo, per conoscere i particolari di una morte in combattimento o all’ospedale da campo, per richiedere gli oggetti e i ricordi personali di un Caduto, per avere una parola di consiglio, di aiuto, di conforto. Il Cappellano militare è un po’ il vicario della mamma presso i figli lontani, in armi.
Tra queste lettere, tre soltanto ne ho conservate e mi sono sommamente care. Tre lettere che mi recano e perpetuano sul mio cammino la benedizione di tre madri.
Conveniamone apertamente. Bisogna possedere una ben alta e religiosa consapevolezza della regale supremazia della maternità su ogni altra dignità umana per trovare l’inusitata, semplice, bellissima arditezza di mandare la benedizione a un Sacerdote. Solo le madri sensate e saporose del popolo hanno saputo conservare intatto e profondo il sentimento di questa materna superiorità.
In nome del quale non mi parve mai strano che le mamme dei miei alpini mi benedissero da lontano, che anzi una di esse un giorno, con solennità quasi liturgica, mi scrivesse: “Signor Cappellano, Vi do la mia benedizione nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo”.
Da allora l’ombra pia di quella mano benedicente di madre ignota e popolana levata sul mio capo mi accompagna sempre, come un’ala di pace e di consolazione.
Porto con me, negli occhi, il sorriso casto dei miei alpini. Non è facile né molto frequente che l’alpino sorrida. Il sorriso è una sfumatura, ha tenuità che difficilmente si intonano all’architettura razionale dei volti montanari. Tanto che, nei primi tempi, l’impassibilità di quelle facce chiuse e ferme mi raffreddava, fino a darmi il pungente sospetto della lontananza spirituale e quasi dell’indifferenza.
L’alpino non è facile ad aprirsi e a fondersi. Ai primi contatti con una persona nuova si irrigidisce, come certi fiori selvatici delle sue montagne gelosi e irsuti. Risponde breve e asciutto, difficilmente raccoglie il motto festoso e invitante, quasi si disturba al discorso scherzoso o troppo abbondante. Si direbbe che stia in guardia e studi pacatamente l’interlocutore. La vita solitaria della montagna coi suoi silenzi majestatici e il breve cerchio d’amicizie al paese gli conferiscono questo fortunato istinto di vigilante temperanza, che è segno preciso di compiutezza e di sufficienza spirituale.
Ma alla fine l’assiduità e l’intimità della vita fanno cadere, a una a una, queste difese e il cuore riesce a bruciare tappe di questa fusione di spiriti. Fino alle più commoventi e, direi, quasi femminili delicatezze. Certi gesti timidi e nascosti dei miei rudi alpini e la pudicizia con la quale li sanno accompagnare rientrano nettamente nella psicologia più secreta e sottile.
Fu così che soltanto alla fine vidi fiorire il sorriso sulla faccia chiara e onesta dei miei uomini. Un sorriso allo stato naturale, puro, buono, discreto; come quello delle acque rapide e chiare delle loro montagne. Quel sorriso era per essi il tacito saluto ogni qualvolta mi passavano daccanto ed era per me, come è tutt’ora nel ricordo commosso, la gioia certa e attesa della loro sana e onorante amicizia.
Anche oggi, in forza di quella cara e comune consuetudine, quando mi capita, nel gergo grigio della folla cittadina, di scorgere d’istinto la sagoma rudemente sbozzata di uno “scarpone”, il cuore mi dà un tuffo gioioso e inconsapevolmente gli sorrido. E mi sa amaro che dall’altra parte non mi risponda più un sorriso.
Quando partii dal Battaglione e dall’ostile Balcania era una favolosa giornata di neve. Non c’era altro al mondo che neve, silenzio e candore. La natura, fino a ieri così festosa nell’opulenza dell’autunno pieno, ne era morta di soffocazione. Le strade, le case, le spalliere dei ponti, i muretti divisori dei campi, tutto era ugualmente sommerso, come in un cataclisma bianco e silenzioso. Le piante piegavano fino a terra i rami troppo oberati di neve, senza dignità né resistenza, scoprendo la nascosta e precoce architettura del tronco nudo e freddoloso. Sotto tanto peso, la terra respirava a malapena.
Intanto il Battaglione mi sfilava finanzi per una lunga marcia di trasferimento. Dal margine della strada volli rivedere in faccia tutti gli alpini e salutarli in silenzio. Quasi nessuno mi parlò.
Ma quando l’interminabile e silenziosa sfilata stava già per esaurirsi perdendosi nella stretta lontana dei monti e la tristezza era per rompere le fragili dighe del cuore, un alpino deviò leggermente dalla fila e, rasentandomi a testa bassa, mi disse riflessivamente: “Ciao”.
Addio, mio fratello alpino. Porterò fermo e dolce nel cuore del tuo umile saluto, come il dono più vero e compiuto del tempo nudo e forte passato insieme sotto le insegne della Patria in armi, come un punto obbligato e pacificante di ritorno per le giornate inevitabili della solitudine spirituale tra il tumulto degli uomini, come l’attestato sicuro di una nuova, vera e conquistata dignità umana.
“Ciao paìs!”

Ilario Péraro

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