L’Alpino: “LA PARTENZA PER IL FRONTE RUSSO”… – 47

…a cura di Ilario Péraro

Per le tue domande scrivi a: ilarioperaro@yahoo.it

Giuseppe Prisco, meglio noto come Peppino Prisco (Milano, 10 dicembre 1921 – Milano, 12 dicembre 2001), è stato un avvocato e dirigente sportivo italiano, noto anche per essere stato vicepresidente dell’Inter dal 1963 al 2001. Reduce di Russia.

Giuseppe Prisco

LA PARTENZA PER IL FRONTE RUSSO

Lunedì 17 agosto 1942, in una torrida giornata d’estate, lasciai Gorizia per il fronte russo con il battaglione L’Aquila: 1600 alpini, 53 ufficiali e 380 muli. Sette mesi dopo, alle prime ore del mattino del 19 marzo 1943, varcato il confine del Brennero, rientravo con i sopravvissuti: 163 alpini, 3 ufficiali (io, Federico Fossati e Romualdo Vitalesta) e 12 muli.
Se all’andata si erano resi necessari più di quindici convogli per trasportare il nostro battaglione, al ritorno ne erano stati sufficienti tre. La mia campagna di Russia è racchiusa in queste nude cifre. La tradotta, che parte da Gorizia, in Italia non si ferma più, ma la va diretta in Russia, cimitero della gioventù. Questo era stato il nostro canto intimo, sommesso, quasi una predizione.
Avevo pensato di abituare i miei genitori al distacco facendoli assistere, due giorni prima, alla partenza del 3° reggimento artiglieria alpina guidato dal colonnello Pietro Gay, che faceva continuamente gli scongiuri in quanto i suoi ufficiali gli cantavano, sull’aria di La sagra di Giarabub: più nessuno ritorna indietro, quanto è ver che ti chiami Pietro, non ritorni neppure tu.

La Tradotta

 

Poco prima della partenza mi si ruppe l’orologio. I miei mi dissero: «Torniamo a Milano, te lo portiamo a riparare e ci vediamo a Verona, quando passi con la tradotta.» Il nostro treno si avviò tra strappi e frenate dalla stazione. Sui marciapiedi, ai lati del binario, fiori, sorrisi, lacrime, doni, baci lanciati da madri, padri, spose e fidanzate.
Non so cosa successe, forse un problema di scambi lungo la linea, ma la conseguenza fu che il nostro convoglio venne deviato verso Tarvisio. Mamma e papà mi aspettavano con l’orologio a Verona. Non riuscimmo a salutarci. Il treno proseguì la sua corsa attraverso l’Austria, la Germania, la Polonia.
La bellezza del paesaggio, ricco di laghi, montagne, boschi, sembrava alleviare la stanchezza del lungo viaggio, ma era solo illusione. Il 24 agosto sostammo per tutta la giornata a Varsavia. Io e alcuni alpini decidemmo di fare una passeggiata per il centro della città che ricordavo vagamente bella per averla ammirata anni prima in qualche cartolina.
Ma quel giorno Varsavia era vestita a lutto, ridotta a un cumulo di macerie fra le quali i suoi abitanti si muovevano come fantasmi, a testa bassa, e ogni crocevia era presidiato da truppe tedesche. Al momento di lasciare il territorio polacco giunse all’improvviso un contrordine del comando supremo che cambiò la nostra destinazione: non più le montagne del Caucaso, come previsto in un primo tempo, bensì la steppa, l’infinita pianura posta a nord- est verso il fiume Don.
Il viaggio continuò, interrotto da lunghe soste tra sudice catapecchie di villaggi e centri industriali abbandonati e distrutti. Gli alpini più anziani, reduci di altre campagne, si guardavano perplessi l’un l’altro e iniziarono a serpeggiare le prime preoccupazioni, condite da rabbia e imprecazioni. «Dovevamo andare in montagna e ci mandano nella steppa! Abbiamo pochi mezzi motorizzati, corazzati e cingolati. Troveremo terreno piatto, stepposo e fangoso… maledetti!».
La maggioranza dei giovani soldati proveniva dalle montagne, dove l’alfabetismo era una condizione ancora poco diffusa.
Per molti non era chiaro nemmeno quello che stavamo facendo, né il motivo per cui lo facevamo: c’era chi non sapeva neppure come si chiamasse il nostro re e chi aveva imparato il nome del Duce soltanto durante le adunate. Sapevano solo che partivamo per la guerra perché ci era stato ordinato, così come, prima che a noi, era stato ordinato ai nostri padri e ai nostri nonni: era nell’ordine naturale delle cose.
Credere, obbedire, combattere. Al nostro arrivo, l’impatto con le forze schierate al fronte mi diede, netto, un sentimento di totale inferiorità verso i tedeschi. Dato un solo sguardo attorno, tutti, nessuno escluso, ci sentimmo come quei bambini che a scuola non hanno la giacchetta e vedono che il compagno di banco ha il paltò con un bel bavero di pelliccia.
Noi eravamo poco addestrati, male armati, scarsamente attrezzati mentre quelli, i crucchi, sembravano bestie nate per fare la guerra… Mandarci in tali condizioni in Russia fu per certi aspetti una forma di vera criminalità.

Ilario Péraro

↓