L’Alpino: “CRISTO CON GLI ALPINI don Carlo Gnocchi”… – 32

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Brano tratto dal libro:

CRISTO CON GLI ALPINI
don Carlo Gnocchi 

… ”Non abbandonateci, siamo italiani anche noi!” gemevano quegli infelici, aggrappandosi ai compagni che a malapena reggevano essi stessi il peso della propria marcia. ”Signor Cappellano – implorava un ferito – sparatemi, per amor di Dio, ma non lasciatemi qui”.
Può darsi condizione più disperante e più umiliante di quella che viene dall’impossibilità di soccorrere, dal non aver più una benda per un ferito, la forza di stendere la mano a un congelato che si trascina carponi dietro la colonna, un po’ d’acqua per un morente (ché spesso i pozzi erano suggellati dal ghiaccio) un pezzo di pane per un estenuato – peggio ancora – del non aver neppure la facoltà di commuoversi e di soffrire? Chi può dire, se nella vita non l’abbia provato, il terrore che viene dal veder l’anima propria perdere a mano a mano il potere di consentire al dolore, al pericolo e alla morte? Nulla è più agghiacciante di questo impietrimento e quasi morte interiore, sotto i colpi troppo gravi e reiterati della sventura, della fame, della stanchezza e del sonno.
Del sonno… quando la sera cominciava a distendere sulla steppa le sue tristi ombre, ogni occhio si dava a scrutare bramoso e inquieto la linea rasata dell’orizzonte per cercarvi la povera sagoma di un’isba o il disegno di qualche sperduto paesello rurale, e non appena gli era dato intravvederlo nel biancore fosforescente della notte, la colonna degli uomini stanchi e arrancanti aveva un sussulto. …I primi arrivati si cacciavano affannosamente nelle case, colando in ogni vano, fin sotto il tetto; gli altri sopraggiungevano ad ondate successive, riempivano ogni interstizio, facendo muro gli uni contro gli altri; gli ultimi, i più stanchi, dovevano accontentarsi di stendersi contro le pareti esterne, all’insulto del vento e del gelo, strenuamente lottando contro l’invasione del sonno letale. “Lasciatemi metter dentro almeno la testa, lasciatemi respirare almeno una boccata d’aria calda…” E nessuno di tutti quegli uomini stipati e rantolanti nel sonno bestiale poteva rispondergli.
Mangiare, ecco l’altro imperativo tormentoso. Che cosa non ho visto mettere sotto i denti nei giorni della ritirata! Avanzi di minestra, intrugli di miglio abbandonati dai russi, patate, bietole crude, frustoli di pane vecchio…
In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l’uomo. L’uomo nudo; completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grandi di lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balia degli istinti più elementari paurosamente emersi dalle profondità dell’essere. Ho visto contendersi il pezzo di pane o di carne a colpi di baionetta; ho visto battere col calcio del fucile sulle mani adunche dei feriti e degli estenuati che si aggrappavano alle slitte, come il naufrago alla tavola della salvezza; ho visto quegli che era venuto in possesso di un pezzo di pane andare a divorarlo negli angoli più remoti, sogguardando come un cane, per timore di doverlo dividere con gli altri; ho visto ufficiali portare in salvamento sulla slitta, le cassette personali e perfino il cane da caccia o la donna russa, camuffati sotto abbondanti coperte, lasciando per terra abbandonati i feriti e i congelati; ho visto un uomo sparare alla testa di un compagno, che non gli cedeva una spanna di terra, nell’isba, per sdraiarsi freddamente al suo posto a dormire…
La Russia mi appariva sempre alla fantasia stanca come una gran massa inerte, oceanica, enigmatica che si lascia passivamente possedere, consente di avanzare cedevole e misteriosa, ma poi ti si chiude improvvisamente alle spalle, con conglutina, ti diluisce e ti annulla nella sua desertica immensità, così che non puoi liberartene per quanto vada e forsennatamente ti sforzi di camminare verso l’orizzonte dilatato e irraggiungibile.
Una sola forza orienta, ora e per sempre, il nostro cuore verso quella terra remota: il ricordo e l’impegno verso i nostri morti. I dolci compagni che abbiamo lasciato lungo il cammino della libertà e della vita, baciandoli in fronte prima di depositarli pietosamente sulla neve calpestata con le armi in pugno e l’immagine della Patria nelle pupille languenti.
Possano essi, come il grano che marcisce nei solchi, ridare una nuova primavera dello spirito a quella terra dolente!

Ilario Péraro – (continua)

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