L’Alpino: “IL MULO IDRO e LA NAJA”… – 38

…a cura di Ilario Péraro

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IL MULO IDRO e LA NAJA

Così per tenere su una buona usanza, abbiam fatto tardi con gli Alpini del mio gruppo: polenta e cotechini, dopo mezzanotte, cotechini freschi rosolati sulle braci che è un mangiare da re.
Ci attendevano le mogli, coi denti fuori: “Svergognati di vecchioni e che bell’esempio date ai vostri figliuoli! Ogni occasione è buona con questa scusa che siete Alpini ed è ora che mettiate la testa a casa!”
Le abbiam lasciate dire e siamo andati a dormire fin dopo mezzogiorno.
Mi ha svegliato il mulo Idro, venuto a vedere perché non mi si vedeva in giro, ed anche lui ha trovato da dire: ”Ne avete fatto del bel baccano questa notte! Ma vi pare che siano ore da cristiani e poi bella roba, in giro a far buriana e le mogli in letto ad aspettare”.
Gli ho detto di pensare ai fatti suoi, che noi di permessi serali non ce ne facciamo firmare da nessuno, perché i tempi della naja sono sepolti e strasepolti.
Il “musso” si è scusato che lui non voleva offendere nessuno, ma poi mi ha chiesto: ”Dimmi un po’; chi è questa naja che voi maledite sempre a parolacce tali che ne arrossiremmo persino noi che siam figli di asini? Ve ne deve aver fatte di ben grosse, per portale sempre tanto livore!”
Lì per lì, non gli ho saputo rispondere: già, cosa vuol dire Naja?
Le abbiam detti dietro tanti rosari, per anni interi e poi non sappiamo nemmeno ben dire chi sia: sta a vedere che facciamo la figura di Bertoldo che sparava alle nuvole, perché gli facevano ombra o di quell’altro matto che si lanciava sui mulini a vento.
Una sera, alla mensa del battaglione Mandrone, il capitano Doniselli definiva la naja così, ma non posso garantire che sia la definizione giusta.
“La naja, vedete è quella tal cosa che io che ho tre stellette, posso dare una pipa a torto e quello che ne ha una meno di me, quello deve dire signorsì, anche se ha voglia di dire signornò, ma, se nel frattempo, arriva il signor colonnello Rovero che di stellette ne ha tre, anche lui, ma can il rosso sotto, ecco che la pipa la prendo io e la faccenda è invertita”.
Qui mi viene in mente quella storia di una caserma nella quale arriva d’improvviso niente meno che il generale, pignolo e menagramo al punto che tutti si toccavano quei tali affari solo a nominarlo: in caserma accadde il finimondo e pareva che fosse caduto il fulmine o che ci fosse il terremoto.
Squilli, fuori la guardia, l’ufficiale di picchetto impalato come se avesse mangiato tre alpenstock: ecco il colonnello che rotola dalle scale e si fissa in un saluto spasmodico: “Comandi signor generale!” Quello, duro, si avvia verso le lacrime.
I cucinieri, allibiti, scattano sull’attenti col mestolo e il forchettone in mano: “Fate assaggiare” dice il generale, nero in faccia come la coda di satanasso.
Disastro! Una broda insipida, buona nemmeno in tempo di elezioni ad attaccare i manifesti: il colonnello si prende un contropelo con i fiocchi e il generale se ne va, minacciando ira di Dio.
Non è uscito fuori dalla caserma, che il colonnello spipazza i comandanti di battaglione: “Questo è l’esercito di re Franceschiello ed è una vergogna che debbo pensare a tutto io solo. Si considerino agli arresti!” … i comandanti di battaglione si rovesciano sui comandanti di compagnia e li spazzolano feroci: “È mai possibile che qui nessuno veda al di là del suo naso! Un casino! I signori comandanti di compagnia non credono di perdere il prestigio anche se, ogni tanto, vanno in cucina a vedere quel che succede e sappiano che Napoleone ha detto che due cose si devono curare nel soldato: cuore e pancia! … tengano gli arresti e si ricordino che un buon capitano deve essere come l’occhio della divina provvidenza; vedere tutto e non essere visto mai! Vadano pure: sono in libertà!”
I capitani mettono dentro i subalterni, i subalterni si rifanno sui sergenti, pelandroni e scansafatiche, i sergenti stangano i caporali, i caporali rovesciano il secchio sulla testa dei cucinieri che, non potendo rifarsi su nessuno, prendono a calci le marmitte e le fan rotolare inveleniti per le cucine.
Anche questa è naja, naja sopraffina…

È naja anche quando il colonnello entra in caserma col berretto storto e non vi è nulla che gli quadra: aria di burrasca corre su per le scale e per i corridoi, serpeggia negli uffici e per le camerate, nei magazzini e persino nelle scuderie, dove i muli mangiano paglia e invece dovrebbero mangiare fieno, ma, prima di sera, qualcuno avrà ben fatto da parafulmine ai nervi del signor colonnello.
Pensi nero e devi dire rosso: se non ti trovano la fascia di lana, sia pure il mese di giugno, vai dentro secco: ti rubano le scatolette e vai dentro, dopo averle pagate, così pari a curarti la roba tua: sei il più anziano della camerata e dormi sodo, ma siccome gli altri giocano a carte, dopo il silenzio, la colpa è tua e paghi per loro. Naja, niente altro che naja!
La sapete la storia di quell’ospedale, dove il colonello medico va per le corsie a visitare gli ammalati e di tutti vuol sapere qualche cosa?
“Voi che male avete? – “Mal di pancia, signor colonnello”. – Bene, bene! Domani sarete guarito”. – “E che cura vi fanno?” – “Tintura di iodio, signor colonnello”. – “Bene, bene! Domani starete meglio”.
“E voi come vi sentite?” – il malato si confonde un poco, ma poi si fa coraggio: “Le emorroidi, signor colonnello”. – “E che cura vi fanno?” – “Pennellate di tintura di iodio”. – “Benissimo, la cura adatta, in tre giorni sarete guarito”. – Passa ad un altro e domanda: “Voi che male avete?” – Tonsillite, signor colonnello”. – “Come vi curano?” – “Pennellate di tintura di iodio”. – Bene, avete qualche osservazione da fare?” – “Oh, no! Vorrei solo che cambiasse pennello!” … Naja, sempre naja! …
Una volta, ad una commissione di leva viene avanti uno e gli domandano la professione da borghese.
“Ragioniere, impiegato in banca”. “Tüti, parei sti Turineis,” sbotta il colonnello, “Tuti profesur! Mettilo nei conducenti muli che ci starà benone”.
Quel che vien dopo, faccia tonda e testa rapata: “Tu di dove sei?” – “Sono di Chivasso, monsù ‘l culunel”. – “D’ Civàs! Pais d’ la mia Fumna! Butlo ‘n fureria. Scritturale!” – “Monsù ‘l culunel, ‘a sai pa scrive”. – Tüta müdestia, tüta müdestia! Füreria l’hai dilu, füreria!”
Non hai sentito, povera recluta tremebonda, la prima sera che passavi la soglia della caserma una mano che ti unghiava per il coppino?
Era la naja accogliente e gentile coi suoi allievi.
Ma no  stare a pensarci troppo, perché in una settimana fanno di te un altro uomo: ti infagottano in certi panni che, o ci nuoti dentro o ci stai insalamato da non poterti muovere, poi ti rasano come i galeotti; impari parole più ostrogote, perché il cuscino lo chiamano traversino, la scopa ramazza, bottino la roba che tieni piegata sotto lo zaino, beccatelli gli attaccapanni sopra la branda, marocco il pane, caffaro il brodo di ghiande del mattino … un vocabolario che non lo dovevano avere neanche gli indiani, quando Colombo giunse in America.
E alle gentilezze della naja, chi mai ci fa caso?
Torni in caserma mezzo minuto dopo la ritirata, perché ti sei attardato ad abbracciare la Rosina, dietro una pianta e subito fili a dormire sul tavolaccio, così la Rosina domani, stufa di aspettarti, ti farà le corna col carabiniere: stai dormendo e sogni chissà che belle cose ed ecco la tromba sgarbata: “Capella marca visita! 2 con tutto quel che segue.
In dieci minuti, lavarsi, fare la branda, lustrare le scarpe, bere il caffè, passare in rango, tutto a suon di tromba, come gli asini dei circhi equestri e se hai la cravatta storta, tre giorni di consegna, per cui la sera, il sergente di ispezione, – un najone firmaiolo – ti porta in compagnia degli altri a ramazzare il cortile.
La domenica ti tocca montare di guardia e ti passan davanti certi tocchi di figliole che il fucile ti trema nelle mani, oppure, se piove e tira vento e magari nevica, fai la statua di gesso nella garitta di legno che ha due buchi nel tetto e ti bagni il coppino.
Naja è anche il tenente che passa ispezione alle armi coi guanti bianchi e pretende che non gli si sporchino e così sei fregato: la volta dopo credi di far bene a pulire il catenaccio e vai dentro perché le armi devono essere diligentemente unte ed ingrassate, come ti hanno insegnato.
Suona il trombettiere sulla porta ”Chi ha le scarpe lustre, pol sortir!” e corri perché la morosa ti attende ed ecco l’ufficiale di picchetto vede due macchie che nemmeno Galileo col suo telescopio avrebbe scoperte e dietro front, che per questa sera sei consegnato.
Inutile bestemmiare: è la naja!
Sui bastioni hanno fatte le giostre ed anche l’otto volante e deve essere una belluria andarci con la morosa che fa la paurosa per farsi abbracciare forte, ma devi stare a farti venire l’acquolina in gola, perché la compagnia è sotto ritenuta, per due settimane, per ripagare le galline del prete di Talamona, così in tasca non hai nemmeno un ghello…
Cosa ci vuoi fare: è la naja, sempre la naja…
Il mulo che stava ad ascoltare a bocca aperta, fece salti indietro, come se avesse sentito il fischio di una frusta fra le orecchie.
“Ma allora, la naja è come il basto per noi muli o come il morso di ferro che ci piantano in bocca, perché ci divertiamo a succhiarlo!”
“Fa conto: ecco, bravo Idro, hai proprio indovinato! La naja è il basto, il morso degli uomini…”
Il “musso” si mise a bestemmiare come fanno i cristiani e se non mi affrettavo a chiudergli la bocca, finiva che sentivano i carabinieri e mi ficcavano dentro al suo posto, come responsabile: il che starebbe a dimostrare che esiste anche una naja da borghese e che naja…

Ilario Péraro

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