L’Alpino: “Scemo di guerra… – 24/17
…a cura di Ilario Péraro
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Scemo di guerra
Racconto liberamente ispirato alla figura di don Primo Discacciati,
cappellano militare all’Ospedaletto di Storo dal 1915 al 1918.
ERANO PARTITI DA STORO ALL’ALBA
Giovedì 21 giugno 1917
IL VOLTO DEL FRATE ERA TRISTE E SPRIZZAVA COMPASSIONE SINCERA
Venerdì 22 giugno 1917
ICARO TOMASI AMMUTOLI’ DI FRONTE A TANTA INSOLENZA
Sabato 23 giugno 1917
ADESSO, PERÒ, VORREI PROPRIO CONFESSARMI DA LEI
Domenica 24 giugno 1917
(continuazione…)
Era seduto su una seggiola, il colonnello, alle spalle di don Primo che stava togliendosi i paramenti. Alcide aveva preso sotto braccio padre Augusto e l’aveva accompagnato fuori.
Il cappellano fece per aprire bocca, ma venne interrotto: «Lasci parlare me, adesso. Mi pare abbia già detto troppo, alla predica di poco fa. Voglio sapere tre cose da lei, cappellano Discacciati. Primo: il Babbolin sta fingendo d’essere ammattito per non morire? Secondo: lei ha in mente qualcosa per salvarlo dal plotone? Terzo: lei lo sa che qualsiasi cosa abbia in mente, deve passare attraverso me?»
Don Primo si fece coraggio, chiuse gli occhi e… «Sì, sì, sì!»
«E quindi don Sergio è un simulatore, lei lo vuole far sparire in qualche modo dal forte, ma sa bene che deve convincermi a diventare suo complice. Lo sa che lei un prete fortunato? Ci sarebbe anche un modo di dire un po’ colorito e che renderebbe meglio la sua condizione di uomo fortunato, ma glielo risparmio, che oggi appunto è domenica!»
«E quale sarebbe la mia fortuna?»
«La bella predica di poco fa mi ha toccato veramente il cuore e non tanto per i suoi ragionamenti, ma solo perché lei ha usato praticamente le stesse parole che sentii, quand’ero ragazzo, a un Corpus Domini celebrato nella chiesa di San Cataldo, a Palermo, la città in cui sono nato io. Quella domenica mi fece una tale impressione, quel che disse dal pulpito il parroco don Salvatore usando proprio le sue identiche parole che, giunto alla Comunione, io sentii veramente il Corpo del Signore che entrava nel mio e correva a scrutare il mio cuore e il mio cervello chiedendomi conto delle parolacce, dei furtarelli in casa, dei litigi coi compagni, dei cattivi pensieri mai del tutto cancellati… E da allora cambiai: da quel giorno mi imposi di essere puro, senza macchie, senza peccati… mutai il mio carattere, mi irrigidii e crebbi senza aver pietà per le debolezze mie e quelle degli altri… Il resto se lo può immaginare: se veramente oggi il Signore Iddio alla comunione è entrato nel mio corpo, chissà quante schifezze ci ha trovato, quanta superbia, quanti errori, quanta gente uccisa per colpa mia, quanti soldati che han sofferto a causa della mia durezza…»
Stava piangendo, adesso, Icaro Tomasi e la sua voce era già più dolce, meno asprigna e rude.
«Don Primo, lo so che di solito lo si fa prima di comunicarsi, ma oggi, adesso, subito, avrei bisogno di confessarmi…»
Il cappellano s’avvicinò, gli mise una mano sulla spalla e s’inginocchiò accanto a lui. «Non c’è necessità che lei si confessi ora: il Corpo del Signore è già dentro di lei e sta piangendo attraverso le sue lacrime. Lo assecondi, lasci che il bene entrato poco fa faccia il suo effetto, come una medicina buona… Perché, vede, Dio vuole che noi si sia felice! Dio è gioia, è sorriso, è voler bene a tutti, nessuno escluso! Dio non è punizione, è soccorso, non è condanna a morte, è luce che ti porta fuori dal labirinto, è mano che ti prende per mano per portarti al sicuro… Dio non ti lascia mai solo!»
Icaro Tomasi ebbe uno scatto: si alzò d’un balzo, tirò su col naso, si asciugò gli occhi e con un profondo sospiro si liberò da un gran peso al cuore.
«Si faccia aiutare dal suo Alcide e da don Augusto» disse parlando veloce e sottovoce: «Questo pomeriggio ritiri in fureria vestiti e biancheria pulita e preparate il Babbolin per un lungo viaggio. Domattina lascerete il forte a bordo del camioncino delle provviste, scenderete tutti e tre a Caprino assieme a padre Augusto e lì vi fermerete in canonica. A sera inoltrata verrà a prendervi un’ambulanza che farò venire da Verona e che vi porterà fino a Storo: don Babbolin lo mettere dietro, steso sul lettino dei feriti, e voi due siederete davanti in cabina. Vi affido il prigioniero insomma, che tale rimarrà fino a che questa maledetta guerra non deciderà di averne abbastanza e la smetterà di tormentarci.»
«E come farà con la sentenza, con la corte marziale, con le carte…»
«Don Primo, ma dove vive? Non lo sa che in guerra, e non solo in guerra a dire il vero, le carte ufficiali son fatte proprio per essere rivoltate? Che alle corti marziali e ai generali basta raccontare quel che vogliono sentirsi dire? Che le decisioni non aspettano altro che di essere fraintese, interpretate e magari smentite? E poi, mi permetta che glielo dica: mi son fatto una tale fama e mi conoscono tutti oramai come un colonnello tutto d’un pezzo, diciamo così, che nessuno penserà mai a indagare tra le mie carte! Lasci fare a me: fino alla fine della guerra don Sergio Babbolin sarà un’entità misteriosa, finita chissà dove, forse morta, forse ricoverata in qualche manicomio o forse suicidata in un fosso della pianura… E per essere certi che nessuno risalga a lui, terrò con me tutti i suoi documenti, la carta d’identità, la piastrina con nome e cognome, tutto quello che può condurre a lui. Quando sarà a Storo scelga per il suo giovane prete un nome qualsiasi di copertura e lo tenga ben nascosto tra i suoi malati. Alcide lo proteggerà come fosse suo fratello, ne sono certo, e lei ed io potremo dire alla fine di tutta questa storia che almeno una vita innocente l’abbiamo salvata dalle grinfie della guerra. Adesso, però, vorrei proprio confessarmi da lei, don Primo. Grazie.»
Ilario Péraro – (17 continua)