L’Alpino: “LA SERA DEL 4 NOVEMBRE”… – 39

…a cura di Ilario Péraro

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Racconto tratto dal libro RAGU’ di Gianmaria Bonaldi
“La Ecia” – ristampa 1958 – 1^ edizione1935

STORIA DI IERI MA CHE ANDREBBE BENE ANCHE OGGI

LA SERA DEL 4 NOVEMBRE

Capitò, nel secondo o nel terzo anno di vita della nostra Associazione, che gli Alpini di Milano si trovarono fra di loro per commemorare la ricorrenza del 4 di novembre: cortei e discorsi al mattino, pacifiche e cordiali riunioni di reduci intorno a tavoli fraterni e giocondi dal pomeriggio fino a sera, senza intervallo.
Le buone maniere e le buone amicizie son come le piante rare di serra, fioriscono bene, solo se le innaffi a tempo e spesso: si vede che noi Alpini siamo della categoria di tali piante, perché di innaffiature non ne abbiamo mai abbastanza…

A quei tempi vi era la buona abitudine, nelle feste nazionali, di esporre la bandiera: finestre e balconi erano una sola fioritura di tricolori, come un riso di arcobaleno nel grigiore della città; e mai i colori della Patria sono tanto belli e vivi come quando si mescolano alle popolazioni in festa.

Adesso, anche questa abitudine, come tante altre, è scomparsa: si direbbe quasi che ci sia da vergognarsi a esporre uno straccetto tricolore alla finestra, mentre invece ce ne sarebbe tanto, ma tanto bisogno.

Anche a quei tempi, così per non cambiare, i buoni italiani andavano d’accordo come i frati di Pisa: dopo quattro anni di guerra, bene combattuta e vinta, gli italiani erano divisi fra di loro, lividi di odio e di passioni; anche allora vi erano legioni di rinnegati, di bestemmiatori di ogni cosa santa e generosa, legnate e vituperi di ogni genere erano all’ordine del giorno e troppo spesso sangue fraterno scorreva per le strade e per le piazze, iniziando così quel disordine morale che poi sfociò in ben tristi vicende, le conseguenze delle quali stiamo tutti duramente scontando.

Vi era gente che sputava addosso ai mutilati ed ai reduci: gli ufficiali in divisa aggrediti e svillaneggiati: i tramvieri di Milano, sempre primi a dare l’esempio di civica gentilezza, fermavano i tram, esigendo, per riprendere la corsa, che scendessero quelli che portavano all’occhiello distintivi di medaglie sacrosantamente guadagnate sul campo, forse perché a loro, eroi della “manetta”, facevano l’effetto della banderuola rossa ai tori infuriati.

I Bocia non ci crederanno e straluneranno gli occhi, ma esisteva persino una circolare del ministero della guerra che ordinava agli ufficiali di uscire disarmati, con la fondina attaccata al cinturone, ma vuota e questo perché era successo che qualcuno aveva reagito a pistolettate contro energumeni che lo aggredivano.

La circolare venne letta anche agli ufficiali del Deposito del Quinto Alpini a Milano ma il colonnello Ferrari, – la divina provvidenza ha sempre fatto in modo che i colonnelli degli Alpini siano intelligenti e ben forniti di quei tali attributi che il Colleoni ne aveva uno di riserva, – che fortuna! – commentando la circolare che prescriveva ai comandanti di corpo di mettersi sulla porta, per assicurarsi che i loro ufficiali uscissero uniformandosi alla circolare degna di quelli che ai depositi quadrupedi fanno il nobile mestiere di castrare gli stalloni, disse che lui avrebbe ispezionato le fondine – la circolare diceva così – ma non le tasche dei pantaloni, dove è tanto comodo tenere una spanna di quei tali arnesi, utilissimi, in casi di emergenza a sistemare due o tre mascalzoni che rompono le scuffie.

Alpini sempre, ma fessi mai! Anche se le circolari dei superiori comandi ci imponevano di esserlo ed il signor colonnello ne doveva dare assicurazione scritta!…

Accadde dunque che il pomeriggio di un 4 novembre, improvvisamente e come se fosse corsa parola, Milano si trovò in balia di rinnegati e facinorosi che presero il sopravvento, svillaneggiando e maltrattando mutilati, reduci, ufficiali in divisa, strappando le medaglie dal petto a quelli che le portavano per essersele guadagnate, accanendosi poi a strappare tutte le bandiere che potevano agguantare, trascinandole nel fango a vituperio.

Chi aveva la responsabilità dell’ordine pubblico, pro bono pacis e per evitare di peggio, fece come le lumache, che tiran le corna nel guscio: chiuse un occhio e mezzo e con quel mezzo che gli rimaneva, fece finta di vederci poco o in ritardo, cosa non nuova allora, perché era un generale calamento di braghe, proprio da parte di quelli che invece avevano il dovere preciso di tenersele ben tirate.

E così, il signor prefetto di Milano che, evidentemente, nel suo guardaroba di bretelle non doveva averne, fece come Bertoldo: gli faceva male un callo e lui si tagliò il piede… era però Bertoldo, non un prefetto.

“Ah! Si strappavano le bandiere? Bene! Ritirarle tutte immediatamente da porte, finestre e balconi!” e subito carabinieri, guardie regie e poliziotti, di corsa per la città a ordinare che le bandiere fossero messe nella naftalina, al sicuro dalle tarme e dai dimostranti.

Ma il bello fu che il generale che comandava il presidio di Milano, tanto per non essere da meno del prefetto – vedi dove si caccia l’emulazione! – diede anche lui ordine che le bandiere esposte sulle caserme e gli altri edifici militari fossero levate all’istante e che, per essere sicuri del tutto, si chiudessero anche le porte con serratura e catenaccio…

Nessuna meraviglia del resto: se non ci fossero i generali che valgon poco, come si farebbe a conoscere quelli che invece sono in gamba e che, in simile occasione, non una, ma due bandiere avrebbero messe sulla porta e dentro una compagnia pronta a prendere a pistoccate da cinquanta chili l’una, tutti i mascalzi che si fossero azzardati a toccarle?

Quel giorno, i Morti del Piave e del Carso e i nostri che dormivano sotto la neve, devono essere sussultati di vergogna, ma è proverbio vecchio come il mondo, che chi muore giace e chi vive se ne frega e se ne dimentica, tutte le volte che non gli conviene ricordare.

Noi Alpini avevamo allora la sede in fondo alla Galleria, verso piazza della Scala, sopra la Birreria grande Italia, che allora si chiamava Gambrinus: là è sorta e ha messe le radici la nostra bellissima e fiorentissima associazione: era un bel posto e la siccità non la patimmo mai…

Nei locali dell’ammezzato, si era fatto un rancio fuori ordinanza, avevamo bevuto e cantato fin verso sera, contenti e sereni per la felicità grande di vedere che noi eravamo capaci di volerci bene e di andare d’accordo e in onore dei nostri Morti avevamo messo alla finestra un bandierone grande come il nostro cuore di Alpini…

Sul più bello della cantata, ecco ”u commissario” barba ben rasata, colletto di celluloide, naturalmente vestito di nero come i beccamorti, a intimarci di ritirare “a bandiera” perché questo era l’ordine e anche perché, sotto le nostre finestre, si era fatto un agglomeramento di brutti ceffi che urlavano e imprecavano perché si togliesse la bandiera: lui era salito a far eseguire gli ordini: persino dal palazzo del municipio avevano levata la bandiera.

È bene per decenza e anche perché noi siamo persone educate e di buona famiglia, non ripetere la risposta che quel disgraziato si ebbe: Cambronne, quello della vecchia guardia di Waterloo, può impiantare negozio di profumeria quando crede, in confronto dei versacci e delle male parole che accolsero l’intimidazione vergognosa: “u commissario” fece gli scalini, a tre a tre, lieto che quei matti non lo avessero fatto volare dalla finestra, come qualcuno aveva proposto…

Di sotto, il coro dei forsennati faceva tremare le vetrate della Galleria: noi, dalle finestre rispondevamo con non meno vigore, emulando quei concerti che sono usi fare i muli, quando sono in cerchio e il sole gli batte a picco sulla schiena, ridestando i sopiti umori.

“La bandiera? Chi la voleva venisse pure a prenderla, se era capace! Ci voleva poco, perché noi eravamo una cinquantina e loro un migliaio almeno, ma viva Dio! Non sarebbe certo stata la canaglia di Milano quella che avrebbe fatto cedere gli Alpini!”

Venne anche un capitano dei carabinieri, pallido come un morto e con voce afona, nella quale tremavano la vergogna e lo strazio del soldato e dell’uomo, costretto dal dovere a ripeterci “la grida infame”: aveva sulla manica due segni di ferita e due nastrini azzurri sul petto: ci guardò con occhi allucinati e poi si abbatté piangendo sulla spalla di don Restelli, che si era fatto avanti per dirgli “no!” a nome di tutti.

Anche di noi molti piangevano: piangevano di rabbia e di commozione, rabbia, perché pareva proprio che i nostri Morti fossero morti invano, rabbia per tutto il sangue che i battaglioni avevano buttato a piene vene anche per salvare le spalle di quei villanzoni che urlavano più sotto, rabbia per tutta la sete, la fame, il freddo, i disagi patiti in quattro anni di guerra, mentre quei rinnegati che bestemmiavano erano al sicuro con la fascia dell’esonero, “il salvagente”, rabbia di non poter scendere tutti con le gambe dei tavoli, con le sedie, con pugni, con le unghie, a calci nel sedere della marmaglia fuggente, perché noi Alpini eravamo ben capaci di andare all’assalto anche nella Galleria di MiIano…

Ci fu un tentativo di scalata, con dei tavolini sovrapposti, ma allora apparve a una finestra don Rastelli, alta nelle mani la macchina da scrivere, che ancora stavano pagando a rate! Pronto a scaraventarla sulle zucche dei traditori e dietro tutti gli altri proiettili più eterogenei del mondo, e quei di sotto videro che dovevano affrontare gli Alpini, maestri nel massaggiare schiene di poltroni a colpi di pistocco, gli Alpini che, anche da borghesi, portano suole doppie e sferran calci che ne basta uno per far fare i salti mortali sul selciato e i bagnoli caldi, la sera, per levarsi il livido.

La canea si sgolò fino a spaccarsi i polmoni, urlò tutte le infamie e tutte le ingiurie del vocabolario, ma non ce ne fu uno che azzardasse un passo avanti.

E Bosone, il matto Bosone, fece il gesto dell’estremo menefrego, innaffiandoli con una bottiglia di selz e fu ben poco, in confronto di altra innaffiatura che voleva fare, a caldo, con mezzi propri…

Così quel giorno, in tutta Milano, ci fu una bandiera sola che non venne ammainata, una bandiera sola che non subì l’onta dell’ordinanza iniqua: la nostra, quella degli Alpini, che ancora una volta, se ne erano fregati dei superiori comandi e avevano fatto di testa loro, indovinandola come sempre e quasi non bastasse, sfilammo a mezzanotte, col bandierone in testa, per tutta la Galleria e mai cantata così forte venne fatta in onore dei Morti e per la gioia dei vivi.

Ecco: io che son la Ecia, vi ho cantata una bella storia, proprio come le nonne di un tempo e come si faceva allora, ne dovrei anche trarre la morale.

Ma poi gli Alpini sono tutti intelligenti, ecco che ognuno se la è già tratta da solo ed è proprio la stessa di quei Veci di tanti anni fa, la sera del 4 novembre.

Ilario Péraro 

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