L’Alpino: “Scarpa grossa goto pien tor la vita come vien” – 7

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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“Scarpa grossa goto pien tor la vita come vien”

Testo tratto da:
LA LEGGENDA DEL “SANTO” BEVITORE: STORIE DI ALPINI, DI GUERRA E DI VINI

di Angelo Nataloni

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L’Alpino della Grande Guerra con la A maiuscola oltre ad essere parte integrante della nostra storia militare è oramai diventato un mito se non addirittura una leggenda. E’ il soldato con la penna nera che non retrocede mai, che sopporta la fatica dell’alta quota, che si aggrappa alla roccia con le mani e con le unghie per non far passare il nemico, che obbedisce per senso del dovere senza bisogno di spiegazioni, che si dimostra sempre calmo, che si muove con serenità rassegnata e che sa abbozzare un mezzo sorriso anche nei momenti più drammatici.
Ma il mito dell’Alpino è anche e soprattutto da allora, correlato al vino che con esso fa rima e connubio indissolubile tanto che lo scrittore inglese Rudyard Kipling (autore de “Il libro della giungla”), durante una sua visita sul fronte italiano (aveva l’incarico ufficiale di osservatore), ne tenne in dovuto conto quando espresse questo lusinghiero giudizio sulle nostre penne nere:
“Alpini, forse la più fiera, la più tenace fra le specialità impegnate su ogni fronte di guerra. Combattono con pena e fatica fra le grandi Dolomiti, fra rocce e boschi, di giorno un mondo splendente di sole e di neve, la notte un gelo di stelle. Nelle loro solitarie posizioni, all’avanguardia di disperate battaglie contro un nemico che sta sopra di loro, più ricco di artiglieria, le loro imprese sono frutto di coraggio e di gesti individuali. Grandi bevitori, lesti di lingua e di mano, orgogliosi di sé e del loro Corpo, vivono rozzamente e muoiono eroicamente”.
Non è che fanti, bersaglieri, marinai ed aviatori non bevessero, anzi, tuttavia sono gli Alpini che più di tutti gli altri vengono correlati al vino, forse perché alzavano il gomito un po’ troppo spesso e se poi aggiungiamo quelle facce da tricheco, quei pizzetti da guasconi e quelle perenni gote rosse, la leggenda dell’“Alpino” gran bevitore è servita. In più erano decisamente più ironici dei poveri fanti e questa qualità farà la sua differenza.
Ma perché gli Alpini bevevano? Dicono per tre ragioni: primo, perché altrimenti non avrebbero saputo cantare così bene; secondo, perché erano prevalentemente gente di montagna ove il freddo reclamava qualcosa che “raschi la gola”; terzo perché sapevano bere. Soprattutto bevevano quando ce n’era ma, ottanta volte su cento, bevevano anche quando non ce n’era perché, come vedremo, lo trovavano. Gli Alpini certamente bevevano, però niente vizio, niente alcoolismo, niente ubriachezza volgare. Al di là di queste altrui spiegazioni, di mio direi che bevevano né più e né meno per lo stesso motivo per cui lo facevano gli altri e cioè per dimenticare la vita quotidiana delle trincee, la paura di essere feriti o della morte, gli orrori ed pericoli della guerra come traspare da questa testimonianza tratta da “Storie di Alpini” di Agno Berlese (Ceschia Edit. 1940):
[…] Di fronte alla terribile posizione delle Melette durante l’offensiva nemica del novembre 1917, in una notte oscura e rigida una pattuglia di ufficiali sta per uscire dalle linee per una ricognizione. Cinque alpini sono della partita e si preparano calmi e decisi. Il caporale Eugenio Sebastiani porge al tenente Bugattini che comanda la spedizione una bottiglia di cognac. Un sorso di calore non farà male. Tazza alla mano, la metà del contenuto è divisa fraternamente fra tutti i presenti. “Ed ora andiamo – dice l’ufficiale – al ritorno berremo l’altra metà”.
Un attimo di silenzio, poi una voce “Sior tenente, l’è mejo chel me daga subito la razion che me spetaria dopo, parché se no torno indrio, no ghe smeno gnente (non ci perdo niente)”.
E il caporale Sebastiani ritornò morto, portato dai compagni. […]
Però rispetto agli altri una differenza c’è. Nel senso che in linea di massima bevevano tutti senza distinzione tra truppa, ufficiali, medici e persino cappellani come ricorda Angelo Manaresi (uno dei Capitani storici del Battaglion Feltre) parlando del loro Don Agostini:
[…] “quando poi lo vedono fumare toscani neri e puzzolenti come il carbone e bere senza tremare il torbido vino della sussistenza, e alternare ai canti sacri le canzoni alpine, un’ondata di simpatia passa nel Battaglione.” […]
Insomma ogni occasione era buona per bere alla salute o alla memoria come testimoniano i numerosi ritrovamenti di fiaschi e bottiglie, maggiori proprio là dove si trovavano i baraccamenti delle pene nere.
Ma che vino bevevano? Gli ufficiali potevano sicuramente permettersi qualche pregiata bottiglia e quelle etichette ci potrebbero raccontare il nostro Risorgimento. Già perché nonostante l’Italia fosse già un grande vigneto con buona parte di quelle produzioni che noi oggi conosciamo, i vini allora più bevuti su certe tavole profumavano per l’appunto di Risorgimento. Erano il Barolo il cui padre putativo fu Cavour, il Chianti codificato da un altro illustre primo ministro come Bettino Ricasoli, il Brunello inventato da un ex garibaldino come Ferruccio Biondi Santi, il Nebbiolo sponsorizzato da Quintino Sella, economista, grande amante della montagna nonché ministro delle Finanze nel 1862, il Vermentino e il Cannonau della Sella & Mosca (Erminio Sella era nipote dell’appena citato Quintino).
La truppa aveva a disposizione solo il vino della sussistenza che per la maggior parte proveniva dal sud (Ditta Pezzi U. di Alessandria, Ditta Pasquale G. di Bisceglie, Ditta F.lli Gioia di Corato). Ma poteva andare anche peggio. Perché se agli ufficiali qualche bottiglia con le bollicine arrivava (Gancia, Carpené, Antinori) i poveri soldati dovevano inventarselo: un eccezionale ritrovamento effettuato nel 2003 dal sig. Gian Luigi Rinaldi testimonia come già allora si taroccasse il vino e lo si potesse produrre in polvere. Dentro la tasca di un paio di pantaloni da alpino è saltato fuori, ben ripiegato, il sacchetto che aveva contenuto la polvere per produrre in proprio ben 50 litri di moscato (ovviamente DOC!!!). Nonostante l’età e le vicissitudini, la stampa è ancora chiara e leggibile e così recita:

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In un qualunque recipiente mettere il contenuto del pacco, versare sopra 5 litri d’acqua calda e coprire bene per evitare l’evaporazione; dopo 10 ore di riposo aggiungere Kg. 2 di zucchero fino sciolto dentro ai 45 litri di acqua fredda e un litro di buon aceto. Avendo cura di mescolare almeno una volta al giorno e lasciarlo in fusione per 6 giorni. Dopo questo periodo di tempo si filtri e si metta nelle bottiglie ben turate, dopo 5 giorni si può bere che si avrà un buon spumante al moscato conservabile, che può sostituire con vantaggio il vino e la birra.
Prezzo del pacco lire 1,25.
Approvato dalla scienza medica chimica e farmaceutica.

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