L’Alpino: “Scemo di guerra… – 24/13

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Scemo di guerra

Racconto liberamente ispirato alla figura di don Primo Discacciati, 
cappellano militare all’Ospedaletto di Storo dal 1915 al 1918.

ERANO PARTITI DA STORO ALL’ALBA
Giovedì 21 giugno 1917

IL VOLTO DEL FRATE ERA TRISTE E SPRIZZAVA COMPASSIONE SINCERA
Venerdì 22 giugno 1917

ICARO TOMASI AMMUTOLI’ DI FRONTE A TANTA INSOLENZA
Sabato 23 giugno 1917

(continuazione…)

Il povero condannato a morte se ne stava seduto sul letto nella nuova stanzetta che divideva con Alcide. Lì almeno c’era una finestra che dava sul secondo cortile del forte, c’erano un tavolo con due seggiole e dietro a un paravento si potevano espletare in privato i propri bisogni corporali.
«Lei, don Primo, non è mai stato in trincea, vero?»
«Sì, per visitare i soldati acquartierati in prima linea, per celebrar messa, portar la comunione ma anche un po’ di cibo e conforto.»
«Certo, ma io mi riferisco all’altra trincea, alla trincea come casa definitiva, come prigione che ti accoglie giorno e notte, quando c’è sole e quando piove e nevica o diluvia che bevi acqua sporca e mangi fango! Io parlo della trincea che devi lasciare all’urlo del primo caporale o del sergente pazzo al quale sei stato affidato per balzar fuori dal fosso, saltare le recinzioni di filo spinato e correre a perdifiato moschetto in mano e baionetta innestata contro il nemico che ti sta aspettando a cento, cinquanta, trenta, dieci metri. Parlo delle granate che ti fischiano sopra la testa, degli sbuffi di gas che si sciolgono nell’aria come tentacoli pronti ad afferrarti per la gola, a entrare nei tuoi polmoni per ucciderti l’aria dentro! Parlo della guerra, don Primo, di quella vera. Non di quella che si racconta nelle retrovie o sui giornali: parlo dei corpi dei tuoi amici che si spezzano, si piegano ed esplodono davanti a te, sporcandoti la faccia di sangue, di vestiti stracciati, di urla feroci… E non sai quando sarà il tuo turno, non puoi immaginare quando toccherà a te anche perché, quando capiterà, tu manco te ne accorgerai: PUM! Morirai di botto, senza sentire un dolore. Silenzio improvviso, il nulla. Il buio e basta!»
«Ma la guerra è così, non ci si può far nulla!» bisbigliò don Primo.
Alcide alzò lo sguardo e fissò il suo cappellano: «Questa non è una risposta, Monsignor Primo» disse il giovane. «Lo sappiamo tutti che la guerra è feroce, ma perché c’è la guerra? Perché noi uomini ogni tanto sentiamo il desiderio di farci del male a questo modo?»
«Io la guerra non l’ho voluta» urlò quasi il Babbolin. «Me ne stavo con la mia gente a Cadoneghe, tranquillo e sereno. Coi bimbi stavamo preparandoci alla prima comunione, con le donne del paese eravamo nel pieno dell’organizzazione della festa patronale, nei campi gli uomini erano soddisfatti vedendo i frutti del loro lavoro, il giorno prima una coppia di giovani era venuta in canonica per farsi dare dal parroco i documenti di matrimonio… Nessuno di loro ha chiesto di correre a difendere i confini della patria, a nessuno di loro è stato chiesto un parere!»
Il cappellano militare non si diede per vinto: «Quando però si è in mezzo, Sergio, bisogna farsene una ragione! Non bisogna cedere alla paura…»
«Don Primo» sussurrò don Sergio, «al fronte io mi sono fatto un sacco di amici, ma anche una fedele compagna che non mi ha mai abbandonato: la fifa boia! La paura folle! Quando i miei commilitoni hanno saputo che ero un prete in divisa, per loro sono subito diventato l’ancora di salvezza. Ho raccolto tutte le loro confidenze, ho confessato i loro peccati, li ho consolati, li ho sostenuti, li ho spronati ad avere coraggio, se qualcuno non sapeva scrivere, gli leggevo e gli scrivevo le lettere da mandare a casa, ho distribuito bocconi di pane nero consacrato per la comunione, ma nessuno ha pensato a me! E quando la paura si è impossessata del mio cuore, non ho potuto farci nulla: sono impazzito quasi per davvero. Non è stato facile prendere un’accetta con la sinistra, appoggiare la mano destra sul ciocco di legna, prendere la mira e… c’è voluto fegato, un gran fegato per scappare dalla paura. Ma non mi hanno creduto, non hanno dato retta alle storie inventate e che, poi, ho saputo essere identica alle storie inventate da tutti quelli che si erano mutilati prima di me! Una pallottola vagante che mi ha colpito al dito mentre correvo all’attacco della trincea nemica! Si son messi a ridere i medici: “Eccone qui un altro che ha incrociato con l’indice della mano destra una pallottola che navigava in aria diretta chissà dove!” Vent’anni mi hanno dato: vent’anni di galera in un carcere militare. Peggio che la trincea, glielo garantisco io! E allora mi sono detto: e se facessi finta di essere pazzo, io che un po’ ammattito già lo ero di mio? Se li convincessi tutti quanti che le traveggole mi han bevuto il cervello? Un matto non lo mandi in galera per vent’anni e nemmeno lo spedisci davanti al plotone a contar le pallottole che gli sparano addosso!»

Ilario Péraro – (13 continua)

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