L’Alpino: “EL BOCIA” dell’Ortigara”… – 13

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Battaglia del Monte Ortigara

 “EL  BOCIA” dell’Ortigara  

È ormai sera, una fievole luce non è sufficiente per dare forma a ciò che disordinatamente contiene la stanza; servirebbe una lampadina più forte.
Il vecchio alpino, che ha vissuto le due grandi guerre, sta dormendo con la testa appoggiata sul tavolo; accanto, un bicchiere e una bottiglia vuoti.
Da molti anni soffoca i suoi ricordi nell’alcool.
È sopravvissuto alle guerre, ma ne è uscito irrimediabilmente segnato; fragile da non saper reagire alle avversità della vita. Troppo grande è stata per lui la perdita della sua Silvina.
Figli non ne hanno avuti. Per lui, ora, sembra non ci sia più nulla per cui valga ancora la pena di vivere.
Abita in una casa fatiscente, per la trascuratezza, lontano dal paese: vicino ha una piccola contrada quasi completamente disabitata. Da lì non ha mai voluto andarsene.
Da tempo, solo i fantasmi della sua Silvina e dei suoi compagni alpini che ha visto morire in battaglia lo cercano ancora, per gli altri, quelli “vivi” lui non esiste: è solo un povero vecchio alcolizzato che non dà fastidio a nessuno; perché preoccuparsene?
Sta trascorrendo questi anni della sua esistenza come fosse uno spettro lui stesso.
Quando si sveglia, nella notte ormai profonda, trova solo il desiderio e la forza di aprire un’altra bottiglia e prima di buttarsi vestito sul letto, beve ancora qualche bicchiere di vino.
E qui, nel tormento della sua insonnia e sofferenza, gli ritornano nitidi e puntuali, come tutte le notti, i ricordi di cinquant’anni prima.
Era il mese di giugno dell’anno 1917 e lui, “el bocia”, – così venivano chiamate le nuove reclute – faceva parte del battaglione alpino Verona, uno dei ventidue battaglioni che furono rimandati, visto che si era più volte tentato, alla conquista della cima del Monte Ortigara. Mai battaglie furono più inefficaci e rovinose, comandate da certi ufficiali presuntuosi e inadeguati: è la storia che lo dice!
Soprattutto per questo, i nostri Alpini, Fanti e Bersaglieri, che qui hanno combattuto, sofferto e che qui sono morti, non possono che essere ricordati come eroi.
Furono, gli assalti sull’Ortigara, violenti e sanguinosi, con perdite di vite umane colossali. Nonostante questa catastrofica ecatombe, la cima fu eroicamente espugnata. Inutile vittoria! Resistettero su quelle posizioni per pochi giorni: erano sì conquistatori, ma con le truppe nemiche in grado di impedire l’approvvigionamento dei viveri, che cominciavano a scarseggiare.
Era quasi estate, ma continuava a piovere e nevicare. A causa di tutto questo, molti soldati si ammalarono con forti attacchi di febbre e dissenteria. Si tentava allora, con imprese al di sopra delle possibilità umane, di far arrivare dalla valle, a dorso di mulo, acqua, cibo, munizioni e medicinali. Imprese destinate a fallire: il nemico aveva ormai il controllo dell’intero territorio circostante. Non c’era tempo per gli ammalati e i feriti; tanto, per la maggior parte di loro la sorte era già segnata.
Questo era l’assurdo di una conquista; rivelarsi catastrofica e perdente per i vincitori…
È nata qui su questo monte, fra morti e disperazione, la canzone alpina simbolo di infelicità e rassegnazione TA–PUM:

Venti giorni sull’Ortigara
senza il cambio per dismontà
Ta pum Ta pum con la testa pien de peoci
senza rancio da consumà
Ta pum Ta pum quando sei dietro quel muretto
soldatino non puoi più parlà
Ta Pum Ta pum quando poi che discendi al piano
battaglione non hai più soldà
Ta pum Ta pum dietro al ponte c’è il cimitero
cimitero di noi soldà
Ta pum Ta pum cimitero di noi soldà
presto un giorno ti vengo a trovà
Ta pum Ta pum eravamo in ventinove
solo in sette siamo restà
Ta pum Ta pum

Quando ormai vuoti e stremati furono costretti al ripiegamento, l’esercito Austriaco era strategicamente così ben disposto che, più che una battaglia, fu per loro un tiro al bersaglio.
Le perdite umane nei nostri reparti, già pesantissime, aumentarono spaventosamente. – Il numero dei morti che viene riportato nei libri di storia è impressionante: nei ventidue battaglioni inquadrati nella 52^ divisione, per i combattimenti sull’Ortigara, si contarono 12.633 morti. Solo nell’ultimo giorno di quelle battaglie, il venticinque giugno, i caduti furono 5969 -.
Cesarino, questi numeri riportati nei libri non li ha mai letti; non ha mai voluto, o meglio, non gli è mai interessato saperli.
Lui, quei morti non solo li ha visti, ma li ha pure calpestati e con qualcuno di questi si è anche riparato dal fuoco nemico.
Ricorda con raccapriccio che alcuni di questi corpi erano scarniti, a volte dentro la divisa si vedeva il loro scheletro. Sicuramente erano appartenuti a soldati morti in battaglie combattute l’anno precedente: il susseguirsi dei tragici eventi bellici, aveva impedito il recupero di questi corpi.
Pochi si salvarono, perché, o erano creduti morti o fatti prigionieri. Cesarino se la cavò, fingendosi morto.
Sopravvissuto a quel terribile 1917, l’anno successivo dovette affrontare altre sanguinose battaglie: gravose quelle sul monte Grappa e del Piave.
Anche là vide morire migliaia di alpini tra ufficiali, veci e bocia. Come dimenticare? Aveva allora vent’anni. Ne rimase, lui come tanti altri, segnato per tutta la vita.
Ritornato al paese, continuò il duro lavoro di boscaiolo e montanaro.
Si sposò nell’anno del congedo con Silvina, una ragazza del paese che conosceva fin da quando erano bambini. Con lei aveva condiviso il tempo dei giochi, della scuola e, a parte la parentesi della prima guerra, da sposati, anche le gioie e dolori della vita. Nella seconda guerra, fortunatamente, non fu richiamato.
Lui e la sua Silvina, durante questo conflitto, non sono rimasti nascosti e inoperosi, spesso, anche mettendo a repentaglio la propria vita, si adoperavano per proteggere e far arrivare viveri, messaggi, o quant’altro serviva, ai partigiani che si nascondevano sulle sue montagne.
“Un alpino deve sempre trovare il modo di rendersi utile alla sua patria” ripeteva spesso.
Schivò anche i rastrellamenti dei fascisti e dei tedeschi; forse era troppo fuori paese per destare interesse e preoccupazione, o forse il buon Dio pensò che avesse già tribolato abbastanza nella sua vita e così anche quel periodo di belligeranza passò.
Purtroppo lo strascico di morti e distruzione fu anche in questa guerra pesantissimo.
Ogni tanto si concedeva qualche bicchiere di troppo, Silvina riusciva comunque a contenere questa sua debolezza; ben sapendo che era una “traccia” di guerra.
Nonostante la sua esistenza fosse stata attraversata da due guerre e sia diventato, per stima e rispetto, un “vecio alpino”, lui questo riconoscimento, questa “promozione” sul campo, l’ha sempre rifiutata. ”Non sarò mai un vecio – ripeteva – io sono e sempre sarò, il bocia delle battaglie sull’Ortigara.”
Orgoglioso di appartenere al valoroso corpo degli alpini, non perdeva una festa o raduno dove gli veniva data l’occasione di sfoggiare ancora il suo cappello dalla lunga penna nera e le medaglie al valor militare che aveva meritato sui campi di battaglia. Era fiero di poter raccontare che anche suo nonno era stato un alpino e pure a lui era stata conferita una medaglia di bronzo al valor civile.
In queste occasioni rivedeva qualche vecchio compagno d’armi, e con questo, tra un bicchiere e l’altro, rievocava i momenti passati insieme, ricordando, chiamandoli per nome, i tanti compagni morti in quei terribili combattimenti; erano sì ricordi tristi, ma pur sempre dei suoi verdi anni.
Quella con Silvina, fu una parentesi serena e, a volte felice, della sua vita, fino a quando la sua amata si ammalò e piano, piano, tra molte sofferenze si spense; lasciandolo solo e di nuovo sconfitto.
Già logorato per quanto accaduto durante la guerra, non seppe reggere questa nuova tragedia.
Così riprese a combattere anche questo dramma, come quando, con il terrore negli occhi e la disperazione nel cuore, affrontava i bombardamenti e il fuoco del nemico. O, se un soldato rifiutava l’assalto per paura di morte quasi certa, poteva, questo rifiuto, significare per lui morte sicura. Ci avrebbe pensato il “fuoco amico!” Fucilazione all’istante!
I “veci” allora, per trovare forza e coraggio, lo invitavano a bere un cognac, meglio se due, e se non bastavano non doveva contarli ma continuare a bere, solo così poteva superare la paura e non arrendersi; e morire dentro.
Finì che l’alcool divenne un valido alleato per superare tutte le difficoltà che incontrava nel trascorrere della sua vita: un susseguirsi di barbari ricordi, ammorbiditi con il bere.
Una fredda mattina di Febbraio, sveglio da alcune ore, seduto come sempre sulla grande radice del vecchio noce che troneggia sulla corte, in attesa di riprendere quel po’ di lucidità che il vino gli offuscava, vide venire verso casa sua una macchina.
Rimase sorpreso poiché non riceveva visite da molto tempo. Scese un anziano signore, lo sguardo si posò subito sul cappello da alpino pieno di medaglie che questi portava.
Avanzava zoppicando vistosamente. Il suo difficoltoso camminare, era reso ancora più incerto dal sentiero ancora coperto di neve.
“A cosa devo questa visita?” domandò Cesarino. L’anziano signore chiese se di fronte a lui ci fosse il valoroso bocia dell’Ortigara. “In persona” rispose Cesarino. “Io mi chiamo Berto” disse l’altro, “ma tutti, per quella mia passione di cercare lumache, mi chiamavate Bogonela.
Ti ricordi che proprio tu mi affibbiasti questo appellativo?”. Cesarino si ricordò del vecchio compagno d’armi, lo credeva morto in battaglia sull’Ortigara; lui stesso lo aveva visto dilaniato da una granata.
“Ti credevo morto colpito da una bomba” disse a Berto, “sicuramente mi sarò sbagliato con un altro”.
Si abbracciarono commossi trattenendo a stento le lacrime. Cesarino solamente in quell’istante si accorse che a Berto mancava un braccio.
Entrarono in casa e rimasero per un po’, così, a guardarsi senza riuscire a parlare; erano troppo emozionati.
Ripresosi, Berto gli raccontò che quello che aveva visto saltare con una granata era effettivamente lui. In quella circostanza aveva rischiato veramente di non farcela, avevano dovuto amputargli una gamba, mentre il braccio gli era stato tranciato via da una scheggia. Aveva dovuto subire molti interventi chirurgici e molte trasfusioni di sangue e nonostante tutto, eccolo ancora in questo mondo; con qualche pezzo in meno, ma vivo.
Gli raccontò di aver cercato negli archivi militari, per una rimpatriata, chi era con lui in occasione delle battaglie sull’Ortigara. Purtroppo, era riuscito a rintracciarne veramente pochi; fortunatamente, fra questi, c’era lui, Cesarino. Altri sopravissuti a quelle battaglie, erano nel frattempo morti e con angoscia, ha dovuto constatare che alcuni che erano ancora in vita, erano morti “dentro”; il ricordo di quelle battaglie, ha continuato la sua logorante opera: far morire prima la ragione del corpo! Di altri ancora, si erano perse le tracce.
Gli propose e questo era il motivo della sua visita, di partecipare all’adunata nazionale alpina che si sarebbe svolta di lì a tre mesi: loro due avrebbero sfilato, nell’ultimo dei tre giorni dell’adunata, come reduci delle battaglie sull’Ortigara.
– Era il 1974, la sfilata si sarebbe svolta il 4-5-6 Maggio a Udine -. Da prima Cesarino rispose che non se la sentiva, che lui era morto tanti anni fa con la sua Silvina ed era meglio lasciare perdere. Berto non si perse d’animo, ostinato, s’impuntò, rifiutando di andarsene se prima non avesse convinto l’amico d’arme ad accettare. Gli disse che, se non avesse partecipato, avrebbe deluso la sua Silvina e i compagni morti in quei combattimenti. Sicuramente, “dall’alto”, lo avrebbero visto marciare con il cappello dalla lunga penna nera e ne sarebbero stati orgogliosi.
A Cesarino bastò sentire questo, per cambiare idea ed accettare. Si lasciarono con la promessa che, nulla e nessuno, avrebbe impedito la partecipazione a quella sfilata; loro due soli a rappresentare un intero battaglione.
Come i petali di un fiore che appassisce e il vento li fa volare via, così passarono i giorni per Cesarino.
Venne il  6 Maggio, giorno dell’adunata.
Forse l’ultima occasione per Celestino, di vivere ancora un momento di serenità: in quello stesso anno, andrà a raggiungere i suoi cari!
Nonostante una fastidiosa e insistente pioggia disturbasse la sfilata, fu una giornata indimenticabile. “El bocia” Cesarino spingeva Berto su una carrozzella, il loro passaggio era preceduto da uno striscione portato da giovani alpini; sopra la scritta “più salgo più valgo” viva gli eroi dell’Ortigara. Passarono fra ali di gente che applaudiva incurante dell’inclemenza del tempo, era tutto uno sventolio di bandiere verdi, bianche e rosse. “Viva gli alpini, viva i reduci!” gridavano al loro passaggio.
Fra la folla, a Cesarino parve di vedere i suoi compagni morti in guerra, la sua Silvina che sorridente lo salutava e i suoi genitori che lo applaudivano orgogliosi.
La gente continuava ad acclamare i suoi alpini, e in mezzo a tutto quel rumore assordante, una gran voce, come un urlo, che pareva potessero sentirlo fino sulla Luna, echeggiò ancora per loro: “Viva i bocia dell’Ortigara!
Avrebbe voluto che quella sfilata non finisse mai.

Maurizio

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Ilario Péraro

Foto da Wikipedia

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