Rapelli Giovanni – L’Isola dei Pagadebiti

…a cura di Elisa Zoppei

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Cari amici, spero di farvi cosa gradita ospitando in questo Angolo della Lettura un romanzo ambientato nella Verona di un tempo, scritto da chi l’ha vissuta e l’ha raccontata con quella vivacità di spirito e sorridente umorismo che gli appartenevano. L’autore è il nostro grande Giovanni Rapelli. Il romanzo è “L’Isola dei pagadebiti”, che presento a voi attraverso la magistrale recensione del prof. Giancarlo Volpato, pubblicata in “GIOVANNI RAPELLI Bibliografia Completa a cura di Laura Rapelli”. Stampato c/o Tipografia La Grafica Editrice, febbraio, 2023 .
Elisa Zoppei

Giovanni Rapell

Nota biografica
Nato in una famiglia molto povera, raccontava di essere appassionato di libri fin da bambino, ma per necessità familiari fu costretto a frequentare una scuola di avviamento commerciale ed essere subito inserito come stenodattilografo in un’azienda e solo due anni dopo entrò nella casa editrice Mondadori come allievo tecnico, doratore di copertine e addetto al controllo della qualità. Nonostante queste mansioni pratiche, non abbandonò mai la passione per le lingue: con il francese imparato a scuola, da solo aveva raggiunto la capacità di parlare, o leggere o scrivere in inglese, tedesco, spagnolo, latino, greco, russo, giapponese, eschimese.
La sua competenza gli servì a far carriera alla Mondadori: nel leggere i libri in stampa, segnalava gli errori al suo direttore generale, che così lo promosse a lavorare come correttore di bozze prima e poi redattore e traduttore della casa editrice nella quale lavorò per lo più su opere enciclopediche tradotte dall’inglese, dallo svedese e dallo spagnolo, fino alla pensione nel 1988, anno che lo vide diventare socio corrispondente dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona.
Ha dato alla luce oltre 400 pubblicazioni e una ventina di volumi, primo studioso a proporre una parentela fra giapponese ed eschimese, a studiare le iscrizioni retiche, a riconoscervi una forma di etrusco arcaico mescolato a idiomi euganei e a scrivere trattazioni sistematiche dei cognomi veronesi e cimbri, l’opera per la quale è più conosciuto tra i veronesi. «Perdiamo un punto di riferimento fondamentale», commenta Vito Massalongo, presidente del Curatorium Cimbricum Veronense, proprio nell’anno in cui abbiamo deciso di ristampare i suoi volumi “I cognomi cimbri” e “Testi cimbri” opere fondamentali entrambe esaurite. Ne era felicissimo e ne avevamo parlato alla riunione, dove aveva portato tutto il materiale già pronto, con prefazione, appendici, bibliografia e indici. Un grande professionista, aperto e saggio, fino all’ultimo proiettato su quello che avrebbe preparato nei prossimi mesi». Vittorio Zambaldo (http://www.veja.it/2019/05/12)

“L’Isola dei pagadebiti”

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una Verona meno conosciuta

di Giancarlo Volpato

Molto conosciuto per i suoi studi scientifici, Giovanni Rapelli è del tutto ignorato come autore di due libri che hanno voluto essere – certamente nella sua mente – un contributo del tutto diverso alla sua città. Uomo molto attento alle esigenze, cosiddette minori, dei lettori del quotidiano locale al quale ha dedicato piccoli ma assai pertinenti contributi aderendo, sovente, alle esigenze dei lettori stessi incuriositi dalle sue pagine etimologiche riguardanti nomi, cognomi, frasi, vocaboli costantemente utilizzati ma dei quali si ignoravano le origini, Giovanni Rapelli ha dedicato un’attenzione assolutamente non secondaria ad una città pressoché scomparsa, ad una cittadinanza del tutto tramontata e assolutamente sconosciuta alla generazione attuale. Sono nati così due suoi libri: Nel cuore di Verona. Gli anni Cinquanta dei veronesi, uscito in prima edizione nel 1994 e, in seconda, nel 2004, cui va aggiunto L’Isola dei Pagadebiti, del 1999. Essi appaiono, anche al lettore di oggi, un tributo amoroso, pieno di quell’affetto che non conosce il tramonto, verso una città nella quale l’autore ha trascorso – molto spesso nel silenzio, a volte nel dolore e nella gioia assoluta dei suoi anni – tutta la vita.
«Verona è una città dolce, che è impossibile non amare… Le bellezze di questa stupenda città sono state immortalate in moltissimi resoconti di viaggio, diari, articoli, libri. Sono assai pochi, invece, coloro che hanno fermato la loro attenzione sulla gente di Verona…»; così esordiva nella prefazione al libretto cui, subito dopo, aggiungeva: «un’amica mi obiettò: “Anch’io ho vissuto a Verona nei tempi in cui tu ti riferisci, ma non riconosco affatto la città che descrivi”». Egli non stentava a crederle: ma sapeva, altresì, che ella aveva appartenuto ai ceti alti ed aveva abitato in un quartiere dove la povera gente non entrava quasi mai. Da qui si può bene comprendere l’occhio di Rapelli, adusato a ben altre realtà, molto comuni alla popolazione quasi immediatamente successiva alla fine della guerra: la Verona degli anni Cinquanta del Novecento.
Nel cuore di Verona è uno spaccato della vita cittadina di quel periodo quando i rioni di San Zeno, San Bernardino, Santo Stefano, Carega, Filippini, Fontana del Ferro e Veronetta erano densamente abitati da una popolazione povera che viveva in case malsane e indecorose, in condizioni sovente insopportabili; ma – e questa è la parte più vera, più sincera ed attenta alla realtà – forse proprio per questo, la gente si attaccava tenacemente a valori oggi trascurati: la parola data (che equivaleva ad una cambiale firmata), l’amicizia, l’onestà, l’altruismo, il risparmio, la solidarietà, la fede.
Scritto sull’onda dei ricordi della fanciullezza, il libretto appare come un dipinto attorno a cui l’autore ha circondato la sua vita e quella di migliaia di altri corredandola con le realtà dei ragazzi dell’epoca: i sogni, i giochi, le speranze, le sconosciute ricchezze, l’amore sconfinato per la vita. E così, senza vasche da bagno, senza automobili, con i vestiti spesso sbrindellati e le scarpe rattoppate più volte, i ragazzi e le ragazze d’allora correvano per le strade, inventavano i giochi, andavano a lavorare appena finite le scuole elementari, andavano a fare il bagno sulle rive dell’Adige a Porto San Pancrazio con costumi costruiti in casa, rincorrevano i piccioni in Piazza delle Erbe, costruivano el s-cianco e le bambine giocavano alla peta. Non si sapeva che cosa fosse il fair-play, ma tutti conoscevano e praticavano il rispetto. La gente s’ammalava e poche erano le risposte sanitarie: spesso bastava l’amore, senza confini, a fare guarire le persone care, nel silenzio dei giorni e delle notti; e piene di gioia erano le “scampagnate” domenicali, con il desinare raccolto nelle borse, allorquando qualcuno poteva permettersi di farle. I figli, a volte troppi, erano adorati anche se, per educarli, si faceva volare qualche sberla o qualche ceffone o, magari, i colpevoli dell’infrazione venivano mandati a letto senza avere mangiato: era un’educazione piuttosto seria, ma non severa che contribuì, senza alcun dubbio, ad una crescita vera, fatta di piena coscienza del ruolo nella vita. Sopra ogni cosa, scrive Rapelli con serena coscienza della verità, dominavano la bonarietà, la mitezza, la comprensione; svanivano, spesso, i rancori, anche se appariva dominare una qual malinconia di fondo.
«Credevamo allora, tutti, che queste condizioni di vita fossero immutabili. Invece, non fu così»: questa è la frase conclusiva del libro che era, ed è, la vera grande realtà che venne dopo. Per chi volesse conoscere quegli anni, sfogli il libro di Rapelli e si soffermi, aldilà e oltre le frasi, alle fotografie: un paratesto bellissimo che rievoca un’età perduta, lontanissima, nonostante il tempo passato sia molto vicino a tanti di noi.
Raccontò se stesso, Giovanni Rapelli adulto, quand’era giovane nel romanzo – se così pare giusto – dove si firmò con lo pseudonimo di Nugator: termine latino per autodefinirsi un raccontatore di piccole cose, per avere frugato nei meandri di un bosco (il suo e il nostro) ed avere scoperto che sapevamo tutto ma che avevamo volentieri dimenticato: è la storia di un ragazzo nel lungo apprendistato della vita ne L’isola dei pagadebiti.
Raccontare la propria vita è come annodare, l’uno dopo l’altro, segreti e certezze, ricordi e memorie nebulose; è come immergersi in un mare profondo con gli occhi aperti: dopo il bruciore dei primi attimi, allorquando la vista si è abituata, appare un lungo, interminabile disegno che si va allargando e muta e si tinge di colori e poi s’allenta disperdendosi in rivoli continui. Raccontare se stessi è come dipingersi in un quadro senza contorni dove il senso del finito aumenta, di volta in volta, sì che i giorni della vita paiono moltiplicarsi; raccontarsi è un po’, anche, rivivere in una dimensione che non ci è più propria ma che sentiamo appartenerci sino all’intimo; è come conversare, è come rompere il silenzio che ci sta attorno; è come riaddomesticare un’esistenza che sembrava perduta; è come scrivere su un quaderno senza fogli.
Giovanni Rapelli ricorda ai veronesi quei luoghi del Boschetto, vicino al Pestrino, dove da sempre i giovani andavano nel passato, per tentare le prime nuotate nelle acque dell’Adige: e lì, spaesato e impaurito per non sapere come difendersi dal fiume, Ezio (il protagonista) iniziò a diventare uomo: da un’adolescenza difficile ad una giovinezza ancora più dura perché entrambe maturate negli anni tragici del secondo dopoguerra, dove la povertà era “dote” molto frequente e quando gli svaghi andavano conquistati a denti stretti.
L’isola dei pagadebiti è la storia dei ragazzi veronesi cresciuti in periferia o nei quartieri più antichi e poveri del centro urbano con, sullo sfondo, l’avvicendarsi delle stagioni e delle difficoltà di trovare un lavoro che regalasse sicurezza, con la tormentosa impossibilità di studiare per chi non aveva i mezzi finanziari, con la speranza dei vent’anni che aiutò un mondo disastrato a rinnovarsi e a dare, a coloro che vennero dopo, tutto quanto ad essi era stato negato.
Ezio paga un tributo molto alto alla vita: malattie, ricoveri ospedalieri lunghi, lavori pesanti, solitudine ed una certa qual forma d’introversione che lo penalizza per molto tempo; ma gode della lettura, scopre i primi amori, sogna avvicinandosi alle case chiuse dove gli uomini non possono andare, passa serate piacevoli giocando a biliardo: quasi sempre senza soldi, con tanta rabbia in corpo, ma tanta voglia di vivere da spendere. Attorno a lui, una famiglia: un padre, andatosene troppo presto nei pascoli alti del cielo (e sarà il nume tutelare per il ragazzo nei momenti in cui la figura dell’uomo adulto avrebbe dovuto essere preziosa), una madre straordinariamente saggia anche se discreta (una Lisa indimenticabile e indimenticata, forse la protagonista più vera del romanzo), una sorella dai contorni un poco sfuocati; degli amici sempre vicini e, nello stesso tempo, sempre lontani perché presi, ognuno, dalle angosce dell’adolescenza e dalle difficoltà del quotidiano.
In mezzo a questi pochi personaggi, ruota una serie di comparse: alcune sbiadite, altre vivacizzate dalla partecipazione serena e costante del protagonista; con, sullo sfondo, una Verona dai contorni indefiniti: dalle macerie del primo dopoguerra ai prati verdi della periferia, al cemento che s’innalzava nei palazzi, fino alle sirene delle fabbriche. Ma, stranamente, la città, pure amatissima da Ezio e ricordata continuamente nelle sue passeggiate giornaliere, sembra essere poco partecipe allo sviluppo del giovane il quale, mano a mano che il tempo passa, ripiega di più su se stesso: come accade a coloro che si sentono esclusi, per gli anni quando arrideva loro l’età felice, ma non il mondo attorno.
Ezio non ritornò più sull’isola dei pagadebiti, ma i debiti con se stesso furono tanti e così quelli con la vita: gli scontri sul lavoro, le delusioni d’amore, le piccole sciocche vanità tradite, i conti con la salute, la fede che se ne va e che viene, ma senza radici profonde; è il mondo degli adulti che avanza, inesorabile, e porta con sé quello della gioventù non appieno goduta o della quale Ezio sente di essere stato in parte derubato. Di lontano, ora che sono passati gli anni, s’odono gli echi dei dolori di allora: la rivolta d’Ungheria e la cocente delusione per ideali infranti, la maraja che s’è disciolta non solo per l’età ma anche per l’impietosa ruota della vita, le figure care che s’allungano sempre più.
Ezio e le centinaia di migliaia di altri Ezio non giocano più con le sbrissiarole, né col s-cianco; sono cresciuti, anche la città è cresciuta e tutto ciò che sta intorno ha mutato volti e forme; non è più ora di rimuginare, occorre cercare di vincere. Così termina il romanzo del Nugator Rapelli.
I ragazzi di allora hanno vinto la loro battaglia: è un messaggio da cogliere. La favola della vita, quella raccontata e quella vera, continua.

Giancarlo Volpato
Già professore di Bibliografia, Biblioteconomia,
Storia della stampa e dell’editoria preso l’Università di Verona;
membro effettivo dell’Accademia di Agricoltura Scienze e
Lettere di Verona

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