Camilleri Andrea – “Il corso delle cose”

…a cura di Elisa Zoppei

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Andrea Camilleri

Devo confessare che non conoscevo Andrea Calogero Camilleri (Porto Empedocle, 6 settembre 1925 – Roma, 17 luglio 2019), se non per la sua fama legata al personaggio televisivo del commissario Salvo Montalbano, e solo navigando fra i siti Google ho avuto la percezione della sua colossale grandezza.
È stato uno  scrittore, sceneggiatore, regista, drammaturgo, e maestro di teatro all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Tradotto in più di 120 lingue, credo sia uno degli scrittori italiani più famosi nel mondo e sicuramente uno fra i più ricchi contando la produzione dei suoi diritti d’autore a fronte della vendita di milioni di copie dei suoi libri (solo nel 2016 per il valore di € 283.000). Era figlio unico di Carmelina Fragapane e di Giuseppe Camilleri, ispettore delle compagnie portuali, che nel 1922 aveva partecipato alla marcia su Roma. Trascorre una infanzia relativamente tranquilla, e come tanti bambini anche lui già “a sei anni gli rodeva la voglia di sollevare le gonnelline alle sue compagnucce e vedere quello che avevano sotto” e che gli piaceva più di tutto giocare a dottori (in “Gioco della mosca”, Sellerio, 1995, una specie di abbecedario di aneddoti popolari, proverbi, modi di dire tipicamente siciliani). L’adolescenza fu piuttosto burrascosa in quanto disturbata dalla guerra (1939 -1945). Sappiamo che venne espulso dal Collegio Vescovile “PioX” per aver lanciato delle uova contro il crocefisso. A causa dei fatti bellici (bombardamenti, sbarco in Sicilia delle forze alleate ecc…), riuscirà nel 1943 ad ottenere la maturità liceale, basata sulla valutazione positiva degli scrutini del secondo trimestre, quindi senza fare gli esami. Ricorda quel periodo come la grande avventura di un ragazzo intrepido che percorse a piedi o su camion tedeschi o italiani la Sicilia in lungo e in largo, salvandosi dagli interminabili mitragliamenti, «gettandosi a terra, sporcandosi di polvere, di sangue, di paure». Finita la guerra la famiglia si accampa a Enna, alloggiando in due stanzette di un palazzo antico privo di riscaldamento. Enna resterà nei suoi ricordi come la città, nella quale, la Pensione Eva, casetta a due piani, linda aggraziata, coi fiori sui davanzali, che proprio pareva la casa delle fate, dove gli uomini potevano taliare (guardare) le donne nude, aprì le porte del piacere alle sue voglie giovanili di essere uomo. E sempre a Enna frequenta con assiduità la  Biblioteca Comunale, unico ambiente riscaldato, intrattenendosi con il valente bibliotecario che lo mette in comunicazione con le celebrità letterarie locali: Nino Svarese e il coltissimo Francesco Lanza. Diventa anche amico di Franco Cannarozzo, famoso scrittore di romanzi polizieschi e di fantascienza, firmati con lo pseudonimo di Franco Enna. Camilleri ricorda che, fu lì, nel tepore della biblioteca che scoprì il mondo della letteratura. In quel periodo partecipò a Certamen letterari, e nel 1947 vinse il Premio Firenze con alcune sue poesie (www.vigata.org/biografia)
Trasferitosi a Roma con la famiglia nel 1949, volendo perfezionare la sua attitudine alla regia che praticava fin dal 1942, entra all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica come unico allievo regista e si diploma nel 1952. Pur lavorando come regista di drammi soprattutto Pirandelliani, mettendo in scena anche Becket, Ionesco, Eliot, non abbandona la vocazione letteraria, pubblicando racconti e poesie su  riviste e quotidiani, ottenendo prestigiosi riconoscimenti. Nel 1954 partecipa con successo a un concorso per funzionari Rai, ma sarà assunto solo tre anni dopo, poiché, dice lui, era comunista. Nel 1957 sposa Rosetta Dello Siesto. Ancora nel “Gioco della mosca” ricorda che trascorse sveglio la notte prima di sposarsi, in preda al panico, chiedendosi se sarebbe stato in grado di mantenere fede agli obblighi che il matrimonio comportava. A risolvere la sua crisi fu che, al mattino mentre si faceva la barba, gli venne in mente il detto “ irisinni all’arbuli russi” (andarsene agli alberi russi), un modo popolare per dire che potevano accadere miracoli anche nelle situazioni più difficili. Andò all’altare felice e sicuro che tutto sarebbe andato miracolosamente bene. Ed è stato così. Ha avuto tre figlie e quattro nipoti. Anche la sua carriera non si fermerà più. Insegna al Centro sperimentale di cinematografia di Roma fino al 1970; e fino al 1997 è titolare della cattedra di regia all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Non si contano i successi degli sceneggiati televisivi e le fiction prodotti da lui ( Il tenente Sheridan, Le inchieste del commissario Maigret, La donna di quadri, ecc… ecc…). Scrive continuamente su riviste italiane e straniere. Non si fa mancare nemmeno l’esperienza di fare l’attore prendendo parte a qualche film per la televisione, tratto dai romanzi di Corrado Augias.
Rimane sulla breccia fino alla fine dei suoi giorni. L’11 giugno 2018 recita al Teatro greco di Siracusa il suo monologo Conversazione con Tiresia in cui ripercorre la vita dell’indovino cieco collegandola alla sua sopravvenuta cecità.

Scrive continuamente e continuamente pubblica, oltre ai romanzi con protagonista Montalbano, storie della sua terra. Nel 2013 con “La rivoluzione della luna” partendo da uno spunto storico e nutrendolo di fantasia, racconta la storia di una donna seicentesca che governò la Sicilia come Vicerè, esercitando fra mille ostacoli un’azione politica coraggiosa e concreta. Evviva le donne. Grazie Grande Camilleri.

Per  informazioni più dettagliate  www.vigata.org › biografia › biografia

“Il corso delle cose” (Poggibonsi, Lalli 1978; Palermo, Sellerio 1998),

Andrea Camilleri, questo suo primo romanzo lo dedica alla memoria del  padre, “… che non seppe insegnargli altro se non di essere quello che è”, e avverte di aver ripreso il titolo da una frase del filosofo francese Merleau-Ponty: «Il corso delle cose è sinuoso», per dire che quando ci capitano certi avvenimenti, pensiamo non abbiano nulla a che fare con noi, ma poi alla fine scopriamo che per un loro percorso sinuoso, erano destinati proprio a noi. E allora cosa facciamo? Ce lo dirà, forse, don Vito Macaluso, il principale protagonista degli eventi narrati?

Con un linguaggio suo proprio, che ricalca appieno la parlata quotidiana della sua terra sicula, un po’ arabizzata e un po’ intrisa di grecismi arcaici, l’autore, fin dal titolo sembra voler fotografare la stessa realtà siciliana, tutta intessuta di impulsi umani rudimentali e oscuri, di gesti cerimoniali allusivi che sottendono ad altro e sfuggono alla logica di chi non appartiene a quell’ambiente. In ciò si è rivelato grande maestro, capace di costruire un canovaccio narrativo mirato a essere messo in scena. E infatti così avvenne. Rifiutato da varie case editrici, questo romanzo, scritto a 42 anni, fra il 1967 e 1968, quando era già un affermato regista di teatro e televisione, gli fu infine pubblicato nel 1978 dall’editore Lalli e trasposto subito nel telefilm “Le mani sugli occhi” (1979) con la  regia di Pino Passalacqua. Più tardi, nel 1998 venne ripubblicato dalla Sellerio che in seguitò editò tutte le sue successive produzioni letterarie.

In questa storia Camilleri dà prova della sua rara abilità di tessitore che intreccia i fili gialli di un ordito narrativo fitto di misteri e di lampi di luce. Il lettore si sente spronato a incunearsi nelle vie pericolose e stregate dell’ipotesi mentale, ponendosi domande continue, respirando l’atmosfera della vita siciliana densa di sottosensi fino a rimanere col fiato sospeso. E man mano che ci si affonda nella trama, ecco che si gustano anche le parole cariche di musicale sicilianità.

Siamo a cavallo degli anni cinquanta/sessanta e la storia, esordisce l’autore nel preambolo, non è ambientata a “Nuovaiorca, ma in un paese siculo sito ai piedi delle colline, non lontano dal mare. Qui tanta povera gente si ammassa, nel proprio catojo, tugurio malsano, senza luce e aria con una unica porta davanti che dà sul selciato ma che per altro ospita qualche primo apparecchio televisivo in bianco e nero. Lungo la via principale che sbocca sulla piazza dove sorge la chiesa matrice, s’innalzano le case padronali della gente che conta, in lontananza il rosso del tramonto settembrino specchiato nel mare. La bellezza della scena non distoglie l’attenzione del maresciallo Corbo, siciliano doc e del carabiniere veneziano Tognin, dal ripugnante olezzo emanato dal cadavere di un morto ammazzato, con le scarpe legate al petto che rinvenuto da un contadino in un viottolo del suo campo è stato da costui denunciato alla giustizia. Chi l’avrà ucciso? Perché? E perché le scarpe al collo? Nel gergo malavitoso significa che l’uomo è stato fatto fuori mentre tentava di scappare. Scappare da chi? E mentre il lettore si fa una domanda dopo l’altra, le indagini del maresciallo Corbo procedono in varie direzioni per snidare il o i colpevoli, accompagnate da un altro fatto che desta sorpresa e curiosità: l’attentato ai danni di don Vito Macaluso, due colpi di pistola sparati contro di lui la stessa notte del ritrovamento a chiaro titolo di avvertimento. Don Vito, scapolo, padrone di un pollaio, amante del quieto vivere è uno che notoriamente bada ai fatti propri, detesta le discussioni con l’unico svago di qualche serata al cinema o al bar di Masino e ogni tanto un piacere extra a pagamento con una donnina di facili costumi. I due spari di striscio lo lasciano incolume ma lo fanno precipitare in uno stato di angoscia sentendosi nel mirino di un complotto cui non sa dare nessuna spiegazione: sa di essere controllato a vista giorno e notte, ma da chi e perché? E visto che il pollaio gli rende bene, saranno le sue trecento galline a essere sgozzate al posto suo. Disperato, sbatte la testa contro mura di silenzio e falsità non riuscendo a rendersi conto in quale pantano di conflitti gravi e pericolosi sia venuto a trovarsi. E intorno a lui si muove l’anima espressamente folkloristica del mondo siciliano fatto di mille contraddizioni, di mille parole dette per dirne altre, al di sopra delle quali campeggia netta e gravida di sensi la parola “onore”. Un onore che va mostrato ovunque: in processione portando la statua di San Calogero. il santo protettore nero di provenienza araba, offrendogli pane e soldi; nella vita pubblica occupando posti di prestigio nella scala sociale; nella vita privata proteggendo il proprio nome dall’infamia delle corna. Che tutta la storia, nelle sue varie sfaccettature, si srotoli intorno a un delitto d’onore? Potrebbe sembrare così o meglio qualcuno vorrebbe farla apparire così, tanto più che c’è di mezzo una cartolina scritta con qualche frase d’amore. La verità è un’altra  ma per scoprirla bisognerà leggere il romanzo fino all’ultima riga.
Buona  lettura.

Vs Elisa

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