Ginzburg Natalia – “La strada che va in città. E altri racconti”

…a cura di Elisa Zoppei

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Natalia Ginzburg

Notizie biografiche raccolte da vari siti internet, ci ricordano che la vita di Natalia Ginzburg è stata gravemente segnata da avversità, persecuzioni, tragedie e morti, ma che non si è lasciata andare all’abbandono e alla disperazione. Natalia Levi nasce a Palermo il 14 luglio1916 da famiglia ebraica di origine triestina. Il padre, Giuseppe Levi, professore universitario, e i suoi tre fratelli verranno imprigionati e processati per antifascismo. Trascorre a Torino l’infanzia e l’adolescenza in uno stato di profonda emarginazione, che la induce a trovare una fonte di evasione proprio nella scrittura. Così Natalia, compagna di strada di Cesare Pavese, negli anni ’30, inizia assai presto a scrivere, e a diciotto anni pubblica il suo primo racconto, “I bambini”, sulla rivista «Solaria». Nel 1938 sposa Leone Ginzburg (col cui cognome firmerà in seguito tutte le sue opere), docente universitario di letteratura russa e collaboratore di Giulio Einaudi nella casa editrice fondata nel 1933. Dal ’40 al ’43 vive in un paesino dell’Abruzzo, il marito, dirigente della cospirazione antifascista clandestina, è stato mandato al confino. Qui scrive il suo primo romanzo “La strada che va in città”, pubblicato nel 1942, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Al nome della figlia ha accompagnato il nome del paesino abruzzese vicino all’ Aquila dove è ambientato il racconto. Dopo la morte del marito, ucciso nel carcere di Regina Coeli dai fascisti nel febbraio del ’44, ritorna a Torino, dove riprende a lavorare per la casa editrice Einaudi, presso la quale segue i primi passi di Italo Calvino. Nel 1947 il suo secondo romanzo, “È stato così”, vince il premio “Tempo”. Nel ’50 sposa l’illustre critico e studioso di letteratura inglese, Gabriele Baldini, docente di letteratura e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra. Quindi inizia per Natalia Ginzburg il periodo più fiorente di produzione letteraria. Nel 1952 pubblica “Tutti i nostri ieri”; e nel 1957 al volume di racconti, “Valentino”, viene assegnato il premio Viareggio. Durante un soggiorno a Londra, scrive “Le voci della sera” (1961). Nel ’62 esce la raccolta di saggi “Le piccole virtù”; e nel ’63 vince il “Premio Strega. Nel ’69 rimane nuovamente vedova. Negli anni Settanta, vengono pubblicate le raccolte di saggi “Mai devi domandarmi” (’70) e “Vita immaginaria” (’74). Col romanzo “Caro Michele” del ’73, incarna una delle madri della letteratura italiana contemporanea, raccontando tristezze e tentativi della  generazione, degli anni settanta, alle prese con scelte e sentimenti difficili da vivere, complessi da sviscerare. Seguono il racconto “Famiglia” (’77) e due raccolte di commedie teatrali (alcune delle quali di notevole successo scenico e filmico), “Ti ho sposato per allegria (’70), e “Paese di mare” (’73). Nel 1983 viene eletta al Parlamento, come indipendente nelle liste del PC. Sempre nello stesso anno grande successo ottiene la ricostruzione storica su “La famiglia Manzoni”; nel 1984 esce l’ultimo suo romanzo epistolare “La città e la casa”. Muore a Roma tra il 6 e il 7 ottobre 1991.

La Ginzburg, spicca come una delle voci più autorevoli all’interno del legame novecentesco delle donne con la letteratura, passando dalle forme di intimo neorealismo dei primi romanzi, alla narrazione concreta e viva del suo mondo e delle sue esperienze..

La strada che va in città
E altri racconti
Nuova edizione Einaudi – Collana ET, 2012

Scritto a 25 anni, mentre Natalia Levi e il marito Leone Ginzburg erano al confino in un paesino abruzzese, Pizzoli (AQ), questo breve romanzo fu il primo a uscire nel 1942, con Einaudi, firmato da Alessandra Tornimparte, uno pseudonimo mirato a proteggere l’autrice da deludenti insuccessi. Si trattava per lei di una prima prova, ma inaspettatamente il romanzo incontrò il favore del pubblico e in particolare della critica del noto saggista e critico letterario italiano, Cesare Garboli (1928-2004). Per cui il romanzo, dichiarato un libro aspro e pungente, ma pieno di sapori nuovi, capace di mantenere intatta nel tempo, la sua ruvidezza selvatica e adolescente, fu rimesso in circolazione nel 1993, poi ripubblicato nel 2012, sempre con Einaudi. Non potrebbe essere definito meglio di così, perché siamo davanti a una storia che non ha nulla di romantico, con una protagonista che si discosta completamene, dalle fanciulle in fiore di tanta letteratura mielosa, per mostrarsi come una ragazza priva di sogni, che prende la vita per quello che è, senza farsi tante illusioni. Cresce in una famiglia disastrata dove i buoni sentimenti non fanno da contorno alle buone azioni e le parole picchiano l’aria per la loro volgare ruvidezza. La prima immagine che ci viene avanti è quella di un nonno che picchia un bambino, che gli scappa dalle mani e cerca rifugio in un’altra casa. Non fa eccezione la figura materna, lontanissima dal popolare esempio di angelo del focolare per essere solo una donna sfatta da numerose gravidanze, con i capelli grigi, spettinati, le mancano dei denti davanti, e quando va giù di brutto passa le giornate a maledire a uno a uno tutti i suoi figli, che sono come il veleno che mai si dovrebbero mettere al mondo, muovendosi come un animale in gabbia fra dissidi scontri e incomprensioni. Poi c’è lei, l’io narrante, una diciassettenne in procinto di diventare donna, che racconta di sé, della sua casa rossa piena di fratelli e sorelle piccoli e grandi, dove non ci sono armadi sufficienti per tenere gli abiti di tutti e le galline invadono la cucina e il grammofono suona sempre la stesa canzonetta. E soprattutto la rende inquieta la sua voglia di sposarsi col primo venuto per andarsene a vivere in città, dove si trova la sorella maggiore, già sposata e madre di due bambini, che si trascina per casa e mette le corna al marito in sodalizio con la servetta. Si chiama Azalea, invece lei, la nostra eroina fuori tempo, ma ben piantata in questa scabrosa realtà, si chiama Delia, ma veniamo a saperlo indirettamente solo quando una o due volte nel corso di qualche dialogo viene fatto il suo nome. Insomma la Ginzburg non la nomina mai: Delia così, Delia colà … Non dà alcun nome né al paese, né alla città. Non fa mai posare l’occhio del lettore sui dintorni di un paesaggio campestre. Possiamo solo immaginare che rispondano a un angolo di quell’atavico mondo abruzzese, teatro di storie umane simili a questa. Una storia dove non accade nulla di eclatante. È nell’ordine della natura che quando una ragazza va al fiume e si lascia andare sull’erba col suo spasimante, resta incinta. È nell’ordine delle cose che il padre l’ammazzi di botte e la madre la salvi mandandola a partorire lontana da casa. Sono precise scelte della Ginzburg, dovute non solo al suo carattere, introverso e riservato, ma anche ai dettami del neoverismo letterario per cui non bisogna “sbrodolare”, con la penna, ma essere asciutti e secchi e rappresentare le cose come stanno in realtà. Lei vuole, a suo dire, che ogni frase sia come “una scudisciata o uno schiaffo”. E di schiaffi e scudisciate ne fa le spese il lettore, senza però uscirne malconcio, anzi sentendosene magnetizzato, confuso in quella rude atmosfera, parte integrante di essa. C’è chi afferma che la scrittura di Natalia è anche una inesauribile scuola di costruzione narrativa, dalla quale non si finisce davvero mai di imparare.

Perché augurarvi buona lettura? Per la curiosità che si accende ad ogni pagina di conoscere cosa succede poi. Per la singolarità delle scelte stilistiche consequenziali alla sostanza della storia, che scorre lenta e rimane sospesa nella nostra coscienza. Vi si ingroviglia dentro. Ci fa pensare…
Buona lettura.

Vs Elisa

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