5 DAL GUARDARE ALL’OSSERVARE, NELLO SPAZIO E NEL TEMPO: “Fra Rapelli, Barbarani e mio nonno Ugo: frugando fra memorie di veronesità infra-generazionali”
…a cura di Giorgio Chelidonio
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Fra Rapelli, Barbarani e mio nonno Ugo: frugando fra memorie di veronesità infra-generazionali
Avevo conosciuto Gianni Rapelli molti anni fa, per merito di amici comuni, ma non avevo avuto occasioni culturali di frequentarlo “rapito” com’ero dalla preistoria veronese, dalle sue paleo-tracce e dalle selci. Solo verso la fine degli anni ’80, mosso da nuovi interessi che mi stavano orientando verso “l’educazione alla storia ambientale”, la mia curiosità fu accalappiata da un libriccino in circoscrizionale (che mi fu prestato e che fotocopiai): trattava, brevemente ma efficacemente, la toponomastica del quartiere di Borgo Venezia e mi fece scoprire non solo la territorialità della sapienza di Gianni ma anche la profondità storica del quartiere in cui allora vivevo.
Un mio ulteriore salto conoscitivo avvenne alcuni anni dopo quando lui pubblicò(1) due preziosi libri che tuttora mi sono da guida nelle mie ricerche.
In anni più recenti, un “regalo speciale” me lo fece rivelando le origini del mio cognome(2): il capostipite fu Ludovico Antonio Chelidonio, un trovatello (un “piàtaro”) registrato il 29 marzo 1810 nel “Ingresso degli Esposti”, conservato all’Archivio di Stato di Verona. Mi chiariva, così, un rovello genealogico, essendo un cognome davvero insolito come veronese.
Poi negli ultimi anni la collaborazione a “ilCondominionews” ci aveva fatti incontrare più spesso: era sempre occasione di scambiarci domande e risposte, fino a quel mio chiedergli l’etimologia della parola “masaròl”, imparata negli anni ’50 quando veniva abitualmente usata per venditore di legna e carbone. Nel breve spazio di due e.mail mi spiegò che derivava da “venditore di fascine”.
Fu purtroppo il nostro ultimo incontro: non ebbi il tempo di spiegargli che quell’etimo mi “fiondava” in un racconto di mio padre: classe 1898, abitava nel quartiere di Santo Stefano e, da ragazzo, gli capitava di andare “a piedi” fino a Parona per comperare un paio di fascine di legna, che evidentemente là si vendevano a più buon mercato.
Proprio il tema delle fascine usate in città l’ho ritrovato in una poesia di Berto Barbarani(3):
“A casa, zò in cusìna,
se slarga un fogolàr,
che el magna una fassìna
a çèna e dò a disnàr,
de legna grossa e fina…”
Considerato che fu pubblicata fra il 1897 e il 1900, direi che con uno scarto di pochi anni ben combacia con il racconto di mio padre. Ricordo che, nell’incontro in cui chiesi a Gianni della parola “masaròl” lui fu l’unico dei convenuti a ricordarsene: gli altri (tutti almeno ultra-sessantenni) e abitanti in gioventù in contrade extra-urbane non potevano averne memoria, probabilmente perché allora gli abitanti extra-urbani andavano “a far legna piccola”, fra siepi e vaj. Lo confermano vecchie foto in “bianco e nero”: ad esempio, il paesaggio della Val Pantena era letteralmente “brucato” e c’è memoria che, negli anni ’50, i ragazzini delle famiglie che abitavano nelle contrade sui versanti passavano i pomeriggi “a téndarghe a le dòne che vegnéa su par i boschi par robár legna”.
Però questa coincidenza barbaranesca con i racconti di mio padre, mi ha stuzzicato a risalire nel tempo in chiave dialettale: Berto Barbarani era nato nel 1872, cioè appena otto anni prima il mio nonno materno, Ugo Malfatti. Erano entrambi “cittadini”, anche se dimoranti su sponde opposte dell’Adige: Ugo a Santa Chiara e Berto al “Ponte Nòvo”, ma quasi coetanei.
Qui si incastra una domanda che mi sono posto ormai da molti anni: come mai io (classe 1946) leggo le poesie di Barbarani come un linguaggio del tutto famigliare? La risposta è però quasi ovvia: ho convissuto i miei primi 10 anni con mio nonno Ugo, dunque ho assorbito un dialetto “cittadino” che aveva radici tardo-ottocentesche.
Per farne semplice verifica, ho riletto tre raccolte delle poesie del Berto: “El rosario del cor” (1893-1895), “I pitóchi” (1896) e “Le Montebaldine” (1897-1900). Su un totale di una cinquantina di composizioni, per circa 130 pagine, ho trovato solo 25 parole per le quali ho dovuto consultare le spiegazioni. Di queste, però, una decina mi erano già note ma vennero usate con significati diversi da quelli che avevo “succhiato” nella parlata di mio nonno.
Aggiungo che da almeno 20 anni coltivo, privatamente, passione e curiosità per i vecchi modi di dire dialettali. Anzi, con una mia ex-collega d’ufficio ne abbiamo messo da parte una ventina di pagine, oggi sperdute (spero non del tutto) nei meandri digitali del mio PC (e credo anche nelle “memorie esterne”).
Per ovvi motivi, queste riflessioni non potevano non estendersi all’opera di Gianni Rapelli e, in particolare, al suo “Si dice a Verona. 550 modi dire del dialetto veronese”(4): “stigà” dall’averlo riletto recentemente, ho scoperto di non conoscerne circa il 24% !
Per completezza, fra queste ce n’erano anche alcune che già conoscevo ma usate con significati difformi. Ad esempio, “Fortunàdo come i cani in cèsa” (pag. 34) corrisponde ad uno dei modi di dire più grevi che ho “ereditato” da mio nonno Ugo che, a proposito di sfortuna, citava “gnànca avesse pissà nel lavél de l’acqua santa”(5). Oppure, l’essere “fiòl de ‘na serva”, inteso come sentirsi “l’ultima rùda del carro”, mi era pervenuto in vari forme: “fiòl del pòro sugamàn”, “fiòl de pòro Pìpola da Caldier”. Del tutto simile era la risposta che dava mia madre ad un mio formale scusarmi per qualche “malanno” fatto: “Scusa …se t’ho tolto par ‘na strùsa!”.
Insomma, quali possono essere le cause del mio quasi completo riconoscermi nel veronese delle poesie di Barbarani e invece ignorare “uno su quattro” i modi di dire riportati da Gianni Rapelli?
Credo che questa differenza possa essere dovuta sia ad una questione anagrafica ma anche territoriale: del primo ho ereditato il dialetto, contemporaneo e “cittadino”, di mio nonno Ugo, mentre il secondo ha verosimilmente rilevato, da attento etnografo, una fascia crono-culturale diversa e più estesa alla veronesità extra-urbana. Aggiungo inoltre che questa diversità possa riflettere anche un mio dato anagrafico-famigliare: se i miei genitori non avessero figliato “all’età dei saldi”, io sarei nato almeno 10 anni prima. Come dire che avrei potuto essere più che coetaneo di Gianni Rapelli. E chissà quante “strambèsse” dialettali avremmo potuto condividere vivendole all’interno della stessa generazione.
Concludendo, oltre al “guardare-osservare” anche l’ascoltare compone e ricompone storie, di cui è intessuta la complessità storica dell’ultimo secolo di “dialetti” veronesi. Perché, come mi raccontava mio padre, la sua mamma, nata ad Avesa, parlava un dialetto significativamente diverso.
Links:
- Rapelli G., 1996: “Prontuario toponomastico del Comune di Verona” e “Miscellanea di toponomastica veronese”, Ed. “La Grafica”, Lavagno (VR).
- Rapelli G., 2007: I cognomi del territorio veronese, Cierre Edizioni, Caselle di Sommacampagna (Verona)
- Barbarani B., 1984: Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Verona.
in “Le Montebaldine”, El fogolár del sóno, pp. 133-136 - Cierre Edizioni, prima edizione 2003; ristampa 2020 distribuita nelle edicole dal quotidiano “L’Arena”. Imperdibile !!
- Molti anni dopo, ne ho imparato, da Attilio Benetti (Camposilvano) un’altra versione: “Quando uno el nàsse desfortunà ghe piove sul cul anche se l’è sentà”.
Verona 15.06.2020
Giorgio Chelidonio