24. PREISTORIA? SCIENZA DEL DUBBIO. “L’accensione dimenticata (in meno di 4 generazioni)”

…a cura di Giorgio Chelidonio

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Joseph striking light – 1496 – ref. tinderbox

Premessa:
Al giro di boa del Nuovo Anno mi è affiorata una riflessione che finora era mancata: non mi pare aver ancora trattato “condominialmente” le mie beneamate pietre focaie(1) e la storia del fuoco di cui esse sono solo l’ultima puntata. Come e quanto recentemente è cambiato il rapporto dell’umanità con il fuoco? Pare si sia avviato già 1.000.000 di anni fa, ma è cambiato completamente da appena un secolo circa: inoltre, solo da 50 anni ci siamo abituati ad usarlo senza doverlo produrre ogni volta. Allora, proverò a ripercorrere, “a tappe” e a ritroso, questa importante e intrigantissima storia, lungo la quale i nostri antenati, paleolitici e non, hanno antropizzato il mondo anche tramite l’addomesticamento del fuoco.”

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L’accensione dimenticata (in meno di 4 generazioni)

Una delle cose che, anche oggi, il tradizionalismo pretende di rappresentare per mantenerle vive è il culto della memoria, magari in veste identitaria, cioè etno-culturale.
In realtà alcune abitudini quotidiane vengono spesso “messe in cantina” sotto la spinta incessante del progresso tecnico e del consumismo che ne promuove gli usi.
Non sto parlando né dell’ultimo modello di cellulari, né di TV da 55 e più pollici, ma di modi di accendere il fuoco e di come sono rapidamente e radicalmente cambiati nel corso del XX secolo, al punto che la memoria delle precedenti tecniche, durate molti millenni, è svanita dalla percezione comune. Provo a delineare le tappe principali che ci hanno portato al modello attuale, con ben poche eccezioni rimaste presso sparute comunità africane o del sud-est asiatico.
Risalgono infatti al:
-1973 in primi accendini di plastica alimentati a gas liquido;
-1970 l’invenzione dell’accensione piezoelettrica, che negli ultimi 20 anni ha di fatto eliminato i precedenti accendigas (per non parlare dei fiammiferi) nelle cucine;
-1948 l’applicazione del gas liquido agli accendisigari, allora solo metallici ed alimentati ad alcool, che andava versato in un serbatoio pieno di cotone, adatto a mantenervi questo tipo di combustibile.
Naturalmente questa rapida sequenza riflette solo i tempi delle invenzioni, mentre l’uso delle singole innovazioni si è diffuso con modalità diverse, per distribuzione commerciale e, soprattutto, per convenienze: anche nella storia recente, come in quella più antica, una tecnica diventava nuova abitudine a livello popolare solo quando la convenienza, l’economicità lo permettevano.
Talvolta anche la tradizione, intrisa com’era di simbolismi, fungeva da freno: qualche anno fa mi è capitato di leggere che, ancora negli anni ’50, presso le parrocchie di alcuni paesi sardi il rito pasquale dell’accensione del fuoco nuovo (e la sua benedizione) veniva fatto con acciarino e pietra focaia perché l’uso degli zolfanelli diffondeva un certo odore sulfureo che si voleva evitare perché potenziale evocazione demoniaca. Questo nonostante che i fiammiferi fossero diventati d’uso comune e conveniente da diversi decenni.
È su questa tappa anni ’50 che aggancio un paio di ricordi personali:
-passeggiando con mio padre per le vie del centro, ricordo che veniva talvolta avvicinato da
personaggi che con fare furtivo, e con tono quasi sibilante, offrivano di acquistare “pietrine di
contrabbando”(2), evidentemente in quegli anni oggetto di importazione da paesi anglofoni;
-forse il primo libro che mi venne regalato è stato “Le fiabe di Andersen”(3). Ricordo che fra
queste bellissime storie mi colpì quella intitolata “L’acciarino magico”(4), dal nome del
prodigioso strumento che una “strega” voleva far recuperare, da un soldato di passaggio,
facendolo scendere dentro il cavo di un grandissimo albero. Le scintille che scaturivano da
quel portentoso manufatto facevano apparire cani magici custodi di tesori (monete di rame,
d’argento e d’oro), ma com’era quello strumento? Il suo nome suggeriva che fosse fatto
d’acciaio, dunque un prodotto da fabbri, ma l’autore non ne spiegava la forma. A tutt’oggi,
provando anche ad interrogare su Internet con la parola chiave “acciarino magico” si ottiene
l’accesso a migliaia di immagini ma nessuna, che io sappia, lo raffigura.
Questa fiaba venne pubblicata nel 1835, ma pochi anni dopo (nel 1848) Andersen ne pubblicò un’altra il cui titolo registrava un cambiamento “accensivo” in corso: “La piccola fiammiferaia”(5), una storia triste e commovente, narrata in ambiente urbano dove le famiglie abbienti già usavano i fiammiferi a sfregamento. Questo nuovo e ben più facile mezzo accensivo era stato inventato (con il nome demoniaco di “Lucifer matches”)(6) solo nel 1826: erano gli antenati artigianali (John Walker, l’inventore, era un droghiere di Stockton-on-Tees, nel nord-ovest dell’Inghilterra)(7) dei “fiammiferi” lignei che, da bimbo, vedevo usare quotidianamente nella cucina di casa mia con il nome di “fulminanti”, un termine dialettale ma non limitato all’area veneta(8). Siccome questo era l’unico termine accensivo usato anche dal mio nonno materno (classe 1880), alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, ho verificato la memoria accensiva locale intervistando alcuni anziani ultra-ottantenni che vivevano nella bassa Valpantena, alla prima periferia urbana: nessuno ricordava di “pietre focaie” o di acciarini! Eppure, il passaggio ai fiammiferi a fregamento non deve essere stato privo di “resistenze”, magari dovute alla preoccupazione che, avendoli sottomano, alcuni bimbi potessero accenderli incautamente: questo rischio è ricordato in una filastrocca (fine XIX secolo) che narra di due gatti che tentano, inutilmente, di dissuadere la loro padroncina dall’usare fiammiferi(9). Vestiti e trecce in fiamme sono il triste epilogo della storiella in rima.
Diversi i ricordi degli abitanti della montagna: Attilio Benetti (classe 1923)(10) di Camposilvano (Velo Veronese) ricordava bene l’uso di acciarino, pietra e “lésca”, cioè il fungo che, seccato e appositamente trattato, fungeva da esca per raccogliere le scintille dell’acciarino e trasformarle in piccole braci.  Ricordava anche la costruzione, fatta in casa, dei “solfràti”, bacchettine lignee secche che venivano intrise, alle due estremità, nello zolfo fuso (quello in polvere che si vendeva per usi agricoli): quest’ultimo, posto a contatto con le nuove braci, sviluppava una fiammella bluastra e tenace, perciò adatta a trasferire subito la fiamma, ad una candela o al focolare.
Benetti aggiunse, però, che l’acciarino era oggetto di gran riguardo: lo si doveva usare solo in caso di estremo bisogno, quindi non trovando, al risveglio, braci (adatte a ravvivare il fuoco) nel camino si andava a chiederne dai vicini di casa, quelli il cui comignolo era già fumigante!
Ricordo che, a quel racconto, mi era parso che una simile risparmiosissima strategia accensiva potesse essere dovuta ad una particolare condizione di economia autarchica di quella contrada.
In realtà, diversi anni dopo, una insegnante (nata nei primi anni ’50 del XX secolo) mi confidò che nelle medesime condizioni (a San Bortolo, frazione di Selva di Progno) era abitudine che la madre la mandasse (prima di andare a scuola) dai vicini a chiedere “dò senìse”, cioè un po’ di braci. Quella testimonianza mi aveva sorpreso, ma collocandola in una sperduta contrada (posta a circa 50 km. dal mercato cittadino) la interpretai alla stessa maniera del racconto precedente.
Invece, proprio quest’anno, una signora ultra-ottantenne di Lughezzano mi ha confermato di ricordare il suo nonno mentre si accendeva la pipa con acciarino, pietra ed esca vegetale: una memoria precisa che risale agli ultimi anni ’40 del XX secolo!
Concludendo, per ricucire la cronologia di queste memorie accensive si può confrontarla con la versione che ne diede Alessandro Manzoni ne’ “I promessi sposi”: romanzo storico pubblicato nella prima stesura fra il 1821 e il 1827, ebbe quella definitiva nel 1840. Sebbene la storia narrata si riferisse ad una ambientazione nei primi decenni del XVII secolo, Manzoni risulta essere l’unico autore italiano ad aver descritto con completezza la tecnica accensiva perché era ancora in uso comune nel suo tempo: “Cava fuori esca, pietra focaia, acciarino e zolfanelli, accende un suo lanternino”, si legge a pagina 219 dell’edizione del 1825!(11) È, perciò, logico che, pochi anni dopo (1835), Andersen non si peritasse di descrivere l’acciarino della sua fiaba omonima: non c’era bisogno di spiegare cosa fosse ai suoi contemporanei che lo usavano quotidianamente da quasi 2000 anni! Infine, durante le mie ricerche ho provato a consultare altre fonti scritte storiche, giungendo a trovare citazioni dell’accensione ad acciarino solo … nella “Divina Commedia” dantesca: nel “Canto XIV” de “L’inferno” si legge: “…s’accendea, com’ esca sotto focile…”(12). Scopriamo così il nome dato all’acciarino nella parlata toscana del XIV secolo: era una definizione legata alla sua funzione (dal latino “focus” per fuoco, ma nel senso di focolare), ma altre devono esservi state nelle varie lingue dell’epoca. Finora, ne conosco solo un altro esempio: un diario di viaggio inglese del 1513 in cui si raccomandava di portare con sé “flynte stones, tinder …”, cioè pietre focaie ed esca(13). Resta insoluto il perché questa antica esortazione dimenticasse, stranamente, di citare l’acciarino del cui uso medievale abbiamo diverse attestazioni materiali, fra cui spicca un dettaglio di un dipinto francese del 1496: nella chiesa di Saint Georges ad Haguenau (Alsazia/F), una pala d’altare raffigura, come dettaglio di una “natività”, un S. Giuseppe mentre si appresta ad accendere il fuoco con acciarino, selce, esca e “solfrati”(14). Esattamente come si faceva a Camposilvano, ancora 4 secoli dopo!

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Verona, 5 Febbraio 2018
Giorgio Chelidonio

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