Pubblicazione del libro – “Leggere in filigrana l’Annuario zenoniano: la figura del “custodire”… di Giancarlo Volpato… segnalazione a cura di Aldo Ridolfi… 72

…a cura di Aldo Ridolfi

LAVAGNO (VR)

Leggere in filigrana l’Annuario zenoniano: la figura del “custodire”.

“Annuario storico zenoniano”, numero XXVII, 2020, a cura di Giancarlo Volpato, Edizioni dell’Abazia di San Zeno, stampa La Grafica editrice, Vago di Lavagno Verona.

La filigrana si rende visibile solo in trasparenza. Ad uno sguardo inconsapevole rimane nascosta. Eppure c’è, basta cercarla. Essa impedisce ogni falsificazione; diventa contrassegno e distinzione. Ce la mostravano fin da bambini e noi si rimaneva, a metà secolo scorso, stupefatti a guardarla. Bastava quello, allora.
C’è una filigrana nelle carte valori, nei fogli di protocollo, ma c’è anche una filigrana “letteraria”: un motivo nascosto tra le righe, quasi una presenza inconscia che attraversa una storia, un saggio, un diario. Anche quando il lavoro è a più mani: allora vuol dire che si è verificata un’osmosi intellettuale, che gli autori hanno respirato all’unisono.
Il “custodire”, se vogliamo, non è il più semplice conservare. Conservare è più vicino alla materialità, riguarda gli elementi reali e concreti, si rivolge alle cose, tratta con l’avere, con il possedere. Custodire ha qualcosa di più, si riferisce ai sentimenti più cari, più intimi; tiene conto della tua storia, dei tuoi avi, delle memorie, della fede; contiene al massimo grado l’avere cura, idea che riporta la mente non al tenere sotto chiave per conservare, ma a coltivare nel cuore per amare. Lo stesso nostro angelo è detto “custode”.
Chi scrive vorrebbe provare a rintracciare, nel XXVII “Annuario storico zenoniano”, la figura del “custodire”, come filigrana trasversale a tutti i contributi specialistici qui raccolti i cui autori, sono parole dell’abate Ballarini, «quasi ci prendono per mano aiutandoci a scoprire i tanti segreti di questo capolavoro».
C’è il “custodire” di Laiti e Cordioli i quali, nel dipanare, anno dopo anno, il lento formarsi dell’apostolicità della chiesa, incentrano il loro ragionare proprio sul fondamentale processo di custodia della tradizione che diventa la pietra, il sostrato su cui poi, per millenni, si sarebbe mossa quella fede religiosa che ha portato anche alla basilica di san Zeno.
Il “custodire”, l’avere cura si esplica in maniere e modi diversi. Dario Cervato lo fa in tutto il suo contributo. Si prenda a p. 32 dove sottolinea la presenza, nelle statue del pontile, dei «rotoli da tutti tenuti in mano e dalle due ceste laterali destinate a raccogliere le sacre Scritture dei due Testamenti». Qui il “custodire” è duplice: degli apostoli che tengono stretto il messaggio di salvezza e di Cervato che rilancia tale cura con il suo contributo. Anzi, su questa linea di lettura, l’avere cura è triplice perché anche noi, come lettori, raccogliendo il messaggio, partecipiamo, credo a pieno titolo, al processo del custodire.
Lo spazio architettonico sottrae forza all’informe e al vuoto, riduce questa voragine a senso; trova la sua ragione nella formalizzazione; prende accordi con le culture di cui diventa espressione. E tale arco, millenario, emerge, vivido, palmare nel saggio di Gianna Gaudini. Che subito, mi pare, ci conduce a sentire quello spazio misurato, calibrato, progettato, come spazio interiore: dalla pergula, che è diaframma e dunque separazione, allontanamento dal divino, alla cinquecentesca «piena visibilità simbolica del tabernacolo». Due visioni teologiche, due percezioni antitetiche del rapporto tra il fedele e il sacro, ove non è estranea la «macchina prospettica». È questo un “custodire” diacronico, attraverso il tempo: ed è il più bello, il più importante.
Non si sfugge al “custodire”: filigranato, entra ovunque. Anche nello studio di Donata Samadelli: quando ricerca assonanze o, come scrive il curatore, «ridipinge» le tredici statue, o trasforma i panneggi in straordinari strumenti interpretativi; o, ancora, raccoglie decine di testimonianze critiche e traccia possibili origini. Ed è evidente che custodisce, ne è prova irrefutabile la chiusa del suo scritto, là dove avverte che il complesso marmoreo sviluppa «una didattica incentrata sulla memoria della Resurrezione»: questo della didattica della memoria è esercizio principe del “custodire” e, forse, esercizio principe anche di una civiltà, la nostra, in una fase in cui, ancora, la barbarie sembra non aver preso il sopravvento. Ma potrebbe farlo. Da un momento all’altro.
Bisogna conoscere, e a fondo, ciò che si vuole “custodire”. Se no, che custodia se ne può fare? Gradito giunge, allora, il contributo di Silvia Musetti che edita, con la sua minuziosa “arte” che già conosciamo, le iscrizioni alle basi dei marmi per consentirci un primo essenziale approccio conoscitivo. E procede da lì il nostro conoscere per “custodire”: dalla distribuzione degli apostoli a destra e a sinistra del Cristo alla gestualità che si manifesta in un possibile “dialogo” tra il Redentore e Tommaso; dallo svelamento delle iscrizioni sottratte dal tempo – ma non all’acume dell’Autrice -, al racconto del moto di stupore di Tommaso; dalle mani degli artigiani che hanno agito attorno alle statue, alle «ginocchia sporgenti e tendenzialmente quadrate»; dall’intrecciarsi di eventi politici, religiosi, ereticali, alla capillare ricognizione dei contributi critici: una costante auscultazione – filologica auscultazione – che conduce dritta al “custodire”.
Pachera e Vecchiato si occupano delle migrazioni – sempre all’interno della basilica – delle tredici statue lungo l’arco di tutta la loro storia. Lo fanno sulla base di precise competenze, ma anche in virtù di qualcos’altro. Scrive Pachera: «Noi ci stiamo occupando da molti anni, con passione» allo studio del monumento, e subito dopo non nasconde la sua difficoltà a trovare le parole: «Non abbiamo parole per descrivere le emozioni nell’osservare da vicino le statue». Così Maristella Vecchiato, nella citazione del soprintendente Piero Gazzola, a p. 193, fa magicamente comparire l’espressione «apposite custodie protettive»: quasi che si sia aperto improvviso spiraglio ove la filigrana, inconsapevolmente, ritorna in superficie e dona all’oggetto, «custodie protettive», un valore metaforico tale da diventare il principio guida non solo del volume ma della secolare attenzione al monumento.
Né, credo, sia possibile immaginare, oggi, profilo professionale tanto vicino al “custodire” quale è quello dei restauratori, in tutte le diverse forme e specializzazioni. Sono loro che, constatato «il precario stato di conservazione», in questo caso delle pellicole pittoriche, apprestano strumentazioni «non invasive» e usano spettrometri, stereomicroscopi e analisi in fluorescenza, come avverte Mirella Baldan. La prova che il loro contributo va oltre la necessaria ed ineliminabile dimensione tecnica per entrare, a vele spiegate, in quella sacra del “custodire” si ha nelle parole con cui Marina Cherubini avvia il suo studio, quando, davanti alle tredici statue, sente di dover scrivere «fantastico e misterioso gruppo scultoreo» e confessa l’impossibilità di «rimanere indifferenti davanti a questi sguardi ieratici e severi»: il “custodire” prende avvio proprio da lì, da questi stati d’animo, da queste sensibilità.
Stessa identica cosa avviene nel saggio a più mani di Ferrari, Gottoli, Longo dove già le prime righe mostrano la filigrana in tutta la sua purezza. E ciò avviene dove si dice che le tredici statue «definiscono spazi… raccontano storie di vite passate: le loro… ma anche di vite parallele di chi ha voluto rendere grazie e lode [agli apostoli] riproducendoli… ad imperituro ricordo». Ecco, tutto il resto – mi perdonino davvero gli Autori – pur frutto di straordinarie professionalità e di lunghe esperienze, altro non è che ancella del più generale e più profondo “custodire” tale da fornire all’ “Approccio geologico e tribologico” una cornice di assoluta umanità.
Evidente, appunto in filigrana, ma evidente, è il “custodire” in Riccardo Cassini. Non c’è custodire più autentico del suo. E mi riferisco soprattutto ai disegni. Egli si pone davanti alle statue, le guarda, le misura e le disegna. Come fa la fotografia, custode assoluta di momenti indimenticabili, di volti ed espressioni che non ci lasceranno mai. Nel disegno Cassini riproduce gli sguardi, ci restituisce la statica gestualità delle mani, delle teste, delle gambe, fissa i panneggi, tratteggia i volti, percorre i profili. Carezze. Affetti. Che diventano tratti di penna, ma che perdono, assurdamente, ogni materialità e diventano prendersi cura, “custodire”, prima nel cuore, poi nell’intelletto e infine sulla carta.
Non c’è agire umano e umanizzante che non abbia nel suo DNA la figura del “custodire”: dalla scultura alla pittura, dall’architettura alla letteratura, dalla filosofia alla filatelia. E la musica, forse, nel suo sospendere tutti i sensi tranne l’udito – che, da solo, consente l’«imprimersi nella mente e nel cuore» del messaggio – dimostra di possedere un suo specialissimo senso del custodire. Quando Giovanni Villani percorre spartiti che vanno dalle composizioni musicali quattrocentesche a Pierluigi da Palestrina, al tardo barocco di Bach e Händel fino alla “Passio Domini nostri…” (1982) dell’estone Arvo Pärt, fa della diacronia la condizio sine qua non dello stesso custodire.
Ma il “custodire” – sempre in filigrana – non è visibile solo nell’attenzione al messaggio, ma anche nell’architettura del paratesto. Ad iniziare dalla leggerezza della carta fino alla tonalità avvolgente, morbida e calda della copertina; dalla chiarezza del font alla leggibilità degli indici; dalla massiccia presenza iconografica all’aristocratica leggibilità anche con la luce artificiale. Così il messaggio si sintonizza con il mezzo: il “custodito” (il contenuto), con lo scrigno che lo custodisce (il libro). In ciò non è estraneo il lavoro de “La Grafica editrice” di Vago.
Ma che quanto ho maldestramente raccontato dovesse accadere era chiaro fin dall’inizio. Da quando il curatore Giancarlo Volpato ha voluto porre accanto (o all’inizio) di questo percorso il nonno «analfabeta, ma dotato di un’intelligenza straordinaria». Forse non avrei dovuto entrare nel dato biografico, ma oramai è fatta. È che proprio lì si trova la scaturigine del “custodire”: nel mentre il nonno custodisce, nel senso più paterno possibile, il nipote, questi, diventato grande, custodisce la memoria del nonno. Cui segue un effetto domino capace di una bella, serena contaminazione per tutte le oltre trecento pagine del volume.
L’incredulità di Tommaso – sia essa da leggere come fenomeno di umana, comprensibile psicologia o da intendere con una valenza sacra, o, ancora, come dubbio ossia gesto epistemico capace di avviarci verso la certezza – diventa, dunque, essa stessa, valore da “custodire”.

Aldo Ridolfi

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