Pubblicazione del libro – “Annuario zenoniano 2022: Le parti e l’insieme”… di Giancarlo Volpato… segnalazione a cura di Aldo Ridolfi… 94

…a cura di Aldo Ridolfi

Recensione a: “Annuario storico zenoniano”, curato dal professor Giancarlo Volpato e uscito nel mese di settembre 2022 per i tipi de La Grafica editrice di Vago di Lavagno.

Annuario storico zenoniano 2022

Un libro si concede ai suoi lettori in modi diversi e tutti leciti. Può, per esempio, esibire le parti: i capitoli, le immagini, persino singoli lemmi: microstrutture talvolta comprensibili solo a specialisti e a cultori evoluti della materia. Ma un testo può anche, se il lettore lo va cercando, esibirsi come “insieme” che è qualcosa di più e di diverso della somma delle singole parti. È un messaggio che si intreccia con i contenuti ma che ad essi non si ferma, che ha l’ambizione di raggiungere tutti, indistintamente, i lettori.
Nell’Annuario 2022, proprio di questo “insieme” vorrei andare in cerca. Che c’è di sicuro. Le parti sono così intensamente specialistiche da richiedere, senza la minima concessione, una mente che sia analoga alla mente che ha scritto (percorso che mi è precluso), ma l’“insieme” deve andar bene per ogni lettore.
Ed allora bene ha fatto il prof. Giancarlo Volpato, curatore dell’opera, a principiare le sue sette pagine di Introduzione ai diversi contributi di cui il volume si compone con il richiamo al Sacro Speco di Subiaco. Richiamo doveroso, si dirà, visto che quest’anno il volume è dedicato al “Sacellum S. Benedicti” e visto che San Benedetto da Norcia, proprio in una spelonca – speco, appunto – di Subiaco ha maturato, nella preghiera e nella meditazione, la sua opera immane. Impegno, il suo, religioso e sociale se è vero che di lui si è parlato come del primo unificatore dell’Europa. Richiamo obbligato, certo, ma fortemente simbolico, perché con ciò il Curatore colloca la basilica sanzenate in un ampio tessuto geografico, storico e concettuale che è giustappunto il posto che le spetta. Posto all’inizio, questo richiamo diventa garanzia di una chiave ermeneutica di lettura lontana dalle angustie spazio-temporali e da perimetri concettuali privi del necessario respiro. Già qui compare quel particolare “concedersi” del testo come “insieme”, esplicito scopo della lettura che intendo preporre.
In questo senso si muove anche il contributo di Giuseppe Laiti che ha scelto di rimanere con Benedetto «sul crinale tra due mondi: quello romano tardo antico… e quello che si andava affacciando attraverso le migrazioni dei popoli del Nord». Anche qui il lettore avrà modo di mettere in atto collegamenti e ragionamenti che escono dall’ampio piazzale di san Zeno e si allargano a secoli lontani da noi nel tempo e lontani anche da una temperie culturale, la nostra, che pare orientata verso una cancel culture le cui conseguenze ultime non conosciamo. Con ciò, Laiti, ci educa alla  diacronia, vera spina dorsale della conoscenza storica e anche, mi sia concesso, del nostro stare al mondo.
Dario Cervato dà il via al “movimento”, ché la storia non è mai statica: i benedettini approdano a Verona, a Santa Maria in Organo che diventa, come dire, la loro prima residenza già nel secolo VII. E poi vengono San Zeno, i santi Nazaro e Celso, perfino San Pietro di Badia Calavena in Val d’Illasi. È una esposizione completa e didatticamente fruibile, tutta rintracciabile nella nostra terra, ma intanto il lettore oltrepassa ogni dimensione didattica attratto da ciò che si palesa essenziale oltre ogni informazione: «Troppo limitato appare il quadro tracciato e molto intricata la rete di rapporti accennata tra i vari monasteri benedettini». Ebbene, le idee di “limitato” e di “rete di rapporti” non lasciano dietro di loro indifferenza ma svelano complessità senza le quali la nostra stessa percezione del mondo si livella verso il basso.
Su questa strada è ancora possibile rintracciare, all’interno delle sottili argomentazioni archeologiche di Peter J. Hudson, un arco temporale ineludibile per capire non solo la storia ma anche noi stessi; egli scrive: «Gli scavi hanno delineato abbastanza chiaramente lo sviluppo del sito dall’epoca romana a quella moderna»: prima villa romana, poi cimitero infine luogo sacro alla cristianità. Il grigio uniforme di duemila anni assume i toni chiari delle cose note, grazie  a chi sa raccontare di uomini e di monumenti. Ma, s’è detto, i libri si concedono al lettore in mille fogge, tutte lecite. Ne è sicura testimonianza il titolo che Giuliana Cavalieri Manasse dà ad un suo breve contributo: «Per Peter J. Hudson: archeologo, amico e studioso di valore», ove appare evidente quanto utili e umanamente efficaci siano il lavoro di gruppo e lo sviluppo di particolarissimi rapporti interpersonali anche nell’apparente spirito asettico della ricerca scientifica. E siamo, di nuovo, in uno di quegli innumerevoli messaggi dell’“insieme” di cui l’Annuario è generoso portatore.
Sempre proseguendo con questa lettura, decisamente a latere, dell’Annuario, non si pensi che perseguire la visione d’“insieme” ridimensioni, nasconda, eclissi le finezze del ricercatore. Infatti solo alla fine delle trenta pagine di G.M. Varanini e di S. Musetti diventa palmare la forza della documentazione cartacea archivistica. Le tracce che attirano l’attenzione sono presenti ovunque, ne cito una in apparenza insignificante ma, a ben guardare, assolutamente chiarificatrice del lavoro archivistico: «Ancora più aleatorie ed esili si rivelano le tracce successive…», ove i termini “aleatorie ed esili”, come il ricorso al lemma “tracce” accendono la coscienza di chi legge e riflettono non solo e non tanto la difficoltà di reperire notizie, ma soprattutto – e di conseguenza – la necessità di una conservazione corretta e incessante della nostra memoria.
Si scopre, mano a mano che la lettura procede, una piacevole uniformità interpretativa nei testi dell’Annuario: un’insistenza sui limiti imposti alle conclusioni da un lato, ma nello stesso tempo si scorgono i segni di una sicurezza proveniente da competenze maturate in lunghi decenni.
Anche Silvia Musetti, negli altri due saggi raccolti nel volume, lascia orme per una lettura trasversale. Musetti si confronta, come da “tradizione”, con iscrizioni e grafiti presenti nel sacello: ne fa un’analisi paleografica, storica e archivistica paragonabile – prendendo a prestito un’altra disciplina, la diagnostica medica – ad una vera RM. Prende l’abbrivio dal carteggio del conte Carlo Cipolla per ridare vita e spessore di documento a poche lettere incise su frammenti di marmo. Ed è giocoforza per lei usare espressioni quali: «purtroppo perduto… frammento irreperibile… tramandato già mutilo…». Così facendo scrive per chi non può seguirla nelle competenze paleografiche ma è comunque alla ricerca delle dinamiche che attraversano il lavoro dei ricercatori. Non si tratta di marginalità ma piuttosto di aspetti fondanti. Usciremo dalle sue pagine con la precisa coscienza  di quanto è fragile il nostro passato e di quanto è importante lavorare per conoscerlo.
Così anche per l’acquasantiera in cui quel «risulta difficile restituire» e quell’altro «risulta notevolmente deteriorato» trasbordano dalla semplice cronaca e approdano ad un larvato “affanno” (mi assumo la responsabilità dell’affermazione) per non poter andare oltre e ritrovare radici e matrici in grado di portarci verso quell’inizio in cui i manufatti hanno visto la luce.
E nessuno degli autori sfugge all’invio di messaggi marginali ma importantissimi per i non specialisti, messaggi che se non ci aprono alla comprensione dei particolari, spalancano le porte per colloquiare con la storia. Così anche a Fabio Coden – il quale ha ricucito, per riprendere un’espressione del Curatore, «la lunga, ricchissima storia del sacello» – bastano pochi lemmi lì sulla soglia del suo contributo per costruire l’atmosfera: «autentico scrigno… ambiente enigmatico… complessità interpretativa…», cui seguono «nodi storici… arduo rintracciare la complessa rete di motivazioni». Se un poco ci sfugge la ricca specificità del suo testo, ci giungono però salvifici questo “clima” e questa atmosfera, questo sentire, elementi tutti che arricchiscono non solo la nostra mente ma, in un senso tutto particolare, anche la nostra stessa giornata.
Non meno interessante è il discorso mentre ci si avvicina alla contemporaneità. Tiziana Franco osserva – pur con estrema cautela –  partendo dal Da Lisca del 1941 che quella figura vestita alla romana potrebbe essere «testimonianza del primo insediamento monastico benedettino… agli inizi del IX secolo»; Maristella Vecchiato, assieme all’analisi delle due tavole presentate da Federico Cetrangolo, si avvicina ancor di più e ci racconta del 1973 quando il sacello da magazzino diventa cappella feriale e noi capiamo – da Franco, Vecchiato e Cetrangolo – quanto vari possano essere i destini che toccano anche ai monumenti; infine la vicenda del pavimento – delicatissima e sempre ricca di scoperte – raccontata da Flavio Pachera consente a tutti di cogliere un modo di procedere informato al rispetto e alla conservazione che sono certo concetti storici e architettonici, ma soprattutto e in primis culturali nel senso ampio del termine.
Ci aiuta non poco nella costruzione di questa atmosfera Giovanni Villani (mi perdonerà se forzo un poco il suo dire) le cui riflessioni sulla musica e sulla sua evoluzione bene si adattano a tutto lo spirito del volume. Egli ci assicura che quando «per vie segrete si giungerà a varcare le porte ancora oggi suggellate dal santo fondatore di “Ora et labora”», allora soltanto quanto è stato raccontato nelle 310 pagine precedenti «ci investirà del suo fascino millenario»: è ciò che sono andato cercando.
Dunque, l’augurio dell’abate Giovanni Ballarini che il volume «ridesti lo stimolo a non vivere appiattiti e rassegnati» troverà sicuro compimento.

Aldo Ridolfi

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