2021 ANNO DANTESCO – “Il sommo poeta Durante (Dante) Alighieri” – contributi degli Editori de “ilcondominionews.it”

…a cura di Giancarlo Volpato

Aforismi penna

2021 ANNO DANTESCO – Ricorrenza a 700 anni dalla morte

La “fortuna” di Dante a Verona nel Trecento

Tutti sanno che Verona fu l’unica città del Veneto nella quale, ripetutamente e non occasionalmente, vi fu la presenza di Dante; tutti sanno che nei Signori di Verona egli aveva riposto l’ultima speranza per una palingenesi politica; tutti sanno che, a Cangrande, aveva dedicato il Paradiso per, non ultima ragione, la diffusione della sua maggiore opera. A tutti costoro potrà apparire inspiegabile il silenzio sceso, subito dopo la morte, proprio sul sommo poeta e la sua Comoedia nel mondo dei dotti e dei chierici veronesi: silenzio che, solo dopo vent’anni, sarà interrotto dall’intervento di Pietro Alighieri. Né si possono assumere come documenti della “fortuna” di Dante a Verona le leggende popolaresche locali (annotate anche da Petrarca e Boccaccio) dove il fiorentino appariva come un mago, sollecitato dai Visconti a compiere un sortilegio per fare morire papa Giovanni XXII; non lo furono le risposte, cosiddette beffarde a lui attribuite, la sua superbia punita con la perdita della memoria e della parola; le riportò Marzagaja da Lavagno nel De modernis gestis, le ricordò Taddeo del Branca che definì Dantes quidam, “un certo Dante”.
Naturalmente, non si vuole, in questa sede, presumere che il silenzio dei dotti significasse oblio, seppure temporaneo; tutti l’avevano visto, molti l’avevano conosciuto: era il teorico della monarchia universale nella cui orbita ruotava la personalità di Cangrande, egli era il fiero avversario delle pretese di supremazia papale, egli era il profondo conoscitore del mondo. Bisogna cercare di entrare nella logica della cultura del tempo: in quell’epoca di fervore per le scoperte dei codici antichi, nelle prime avvisaglie di mitizzazione degli autori classici, i preumanisti veronesi sembravano respingere non solo il linguaggio volgare (per la verità ancora lontano nel Veneto da una koiné letteraria) ma lo stesso mondo poetico di Dante, così violentemente calato nell’attualità storica e dottrinale del secolo. Non è detto, altresì, che l’opera maggiore del fiorentino fosse del tutto sconosciuta; purtroppo la scomparsa dell’archivio scaligero, che aveva assorbito una parte dei manoscritti della Biblioteca Capitolare e la dispersione del patrimonio della stessa, iniziata all’inizio del 1300 e protrattasi per decenni (di Dante non esiste traccia nella più antica biblioteca del mondo) acuirono l’apparente dimenticanza.
Tralasciando la documentatissima storia prerinascimentale scaligera, cerchiamo di dare una ragione al “recupero” della Commedia dantesca ad opera del figlio: momento decisivo nella storia del culto di Dante e del suo capolavoro.
Fiorentino di nascita, ma veronese d’elezione, Pietro di Dante, dal 1332 al 1364 – salvo brevi e rari periodi – esercitò la sua attività giuridica in Verona, vi prese moglie, vi acquistò beni ed ebbe quei figlioli che continuarono la discendenza maschile degli Alighieri, esauritasi presto a Firenze con i figli di Jacopo. E veronese fu la composizione del Commentarium nelle sue tre redazioni, che Pietro redasse: e furono Mastino e Alberto Della Scala che, nel biennio 1337-1339, proposero al figlio d’illustrare il poema paterno.
La prima testimonianza della “marginale” fortuna della Commedia fu offerta da Moggio de’ Moggi, parmense e maestro di grammatica amico di Rinaldo da Villafranca, grande umanista; giunto a Verona nel 1346, nuovo dell’ambiente, rievocò, in un carme latino molto difficile e complicato, la lettura dantesca tenuta da Pietro nel Foro cittadino (cioè nella Piazza delle Erbe) con l’evidente intenzione di propiziarsi la benevolenza dell’Alighieri, personaggio certamente influente nell’orbita della corte scaligera. Dopo di lui va ricordato Antonio da Legnago, letterato, professore di grammatica nell’ateneo padovano: legando il suo intervento alle idee monarchiche di Dante, egli si rifece all’amore che il fiorentino aveva nutrito per Arrigo VII, invocando la restaurazione dell’attività imperiale. Fu, forse, il primo che, parlando con commozione delle spoglie mortali che era andato a visitare a Ravenna, abbozzò l’idea di una traslazione delle stesse: si può considerare, probabilmente, la prima mitizzazione di Dante come poeta italico.

La maggiore testimonianza verso l’opera fu offerta da Gasparo Squaro de’ Broaspini che lesse, a Venezia, un’esposizione importante che attirò l’interesse degli umanisti succedutisi a Guglielmo da Pastrengo, il grande corrispondente del Petrarca che, però, aveva obliato l’opera dantesca. Il silenzio filologico che cadrà sull’opera – quasi come un velo steso per altri cinquant’anni – con Guarino (e sarà una colpa molto chiara) trovò qualche piccola rottura con la congratulatio latina del notaio e cancelliere Alberico da Marcellise che la inserì tessendo le parole di gaudio per la nascita del figlio di Antonio Della Scala.
L’ultimo che, sul finire del secolo XIV, ci documentò a Verona la continuità del ricordo, sia pure esterno e formale, di Dante fu maestro Gidino da Sommacampagna con il quale si esce già dall’orbita del preumanesimo. È un ricordo esterno e formale, quasi sbiadito e puramente lessicale dove la lingua del sommo poeta assume il tono – ormai accertato – della “lingua volgare o sia toscana”. Fu questo eccellente scrittore, il cui nome appare importante nella storia letteraria italiana, a identificare il veltro dantesco con qualunque principe scaligero. Non apportò grandi idee neppure Francesco di Vannozzo, corrispondente di Gidino e ospite dei signori Della Scala: nelle sue opere egli apparve totalmente estraneo alla tradizione del linguaggio dantesco. Un “liber Dantis”, contenente la parte relativa al commento dell’Inferno, scritto da Pietro, apparve nell’inventario dei manoscritti di Bartolomeo Squarceto, che esercitò il notariato in quel di Garda. Nessuna copia delle opere del fiorentino apparve neppure tra i 29 codici posseduti da Antonio da Persico, marito di Antonia Alighieri, figlia di Dante II, nipote del poeta.
Per un ritorno a Dante bisognerà arrivare alla seconda metà del Quattrocento, quando Giovanni Maria Filelfo sarà deputato a tenere, nello Studio veronese, alcune pubbliche letture della Commedia e vi sarà la presenza di Pietro III Alighieri: sarà questi che spedirà le lezioni del filosofo-umanista a Pietro de Medici e a Tomaso Soderini a Firenze.
Ma una voce non contaminata da contingenti prospettive dottrinali affiorerà, finalmente, alla fine del Quattrocento, ad affermare la grandezza poetica di Dante. Sarà la voce di un antiquario letterato e, soprattutto, artista: quella di Felice Feliciano – lo stampatore di Poiano – per cui l’Alighieri non sarà più né il teologo, né il profeta, ma solo il grande, il “santissimo” Dante.

Giancarlo Volpato

***

Foto tratte da IMMAGINI DANTESCHE Catalogo della Mostra “VERONA… LO PRIMO TUO RIFUGIO” a cura di Giuseppe Battaglia

↓