Così si pronuncia nel veronese, ma in realtà, sarebbe Can de l’ua, un’espressione tipica del dialetto bresciano e quasi tutti credono si riferisca al succoso frutto della vite. Tanto che molti aggiungono anche l’aggettivo “passa”, ossia, can dè l’ùa passa . La verità è di tutt’altro genere, persino insospettabile.

È noto che l’Italia del 1500, spezzettata come sempre in mille regni e regnucoli, era teatro di molte guerre. Soprattutto francesi e spagnoli, quando non andavano propriamente d’accordo, decidevano di darsele a più non posso, ma in… Italia.

Quindi calavano sul nostro bel suolo soldati e truppe mercenarie (famosi i Lanzichenecchi del sacco di Roma del 527) che portavano con sé abitudini, lingua, gerghi, modi di dire. I francesi, per dare del fessacchione ad uno, lo apostrofavano con un “chien de l’oie”, ossia cane da oca.

Il cane da caccia era considerato nobile, bello e furbo; quello per le pecore, stupidotto tanto che correva dietro alle… pecore; quello da oca era ritenuto il più stupido proprio perché adibito a tenere uniti i branchi d’oche che, soprattutto nel Périgord, venivano allevate per ricavare il famoso pathé di fegato d’oca.

I bresciani assunsero l’insulto dei francesi, ma con l’andar dei secoli perse il significato originale per divenire un’esclamazione bonaria, quasi affettuosa. Perdendo però anche l’idea di oca, per assumere quella errata di uva. Per di più… passa.