Puntata 25 – “Le idee e le parole”

…a cura di Laura Schram PighiPoesia

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   Puntata 25 – “Le idee e le parole”

Spesso si associa il Risorgimento, ossia tutto l’Ottocento fino al primo Novecento, al solo ricordo di guerre e battaglie, e si dimentica che la storia è mossa soprattutto dalle idee e dalle parole che le esprimono. Possiamo dimostrarlo osservando la realtà storica così come ci viene trasmessa dalla letteratura, l’arte delle parole. Anche se l’arte delle immagini, come quella dei suoni ci potrebbero dare risposte analoghe.
Ci limiteremo ad un solo genere letterario, la prosa, e in essa solo alla narrativa dunque la prosa di finzione, così come si sviluppò in una sola area culturale italiana quella del Nord Italia che dal Trecento in poi gravitava attorno a Venezia, millenaria repubblica marinara retta da un governo indipendente.
Quando a fine Settecento, Napoleone con il suo esercito entrò nel Nord Italia, al grido delle tre parole rivoluzionarie liberté, egalité, fraternité, cambiò la geografia politica di quella parte d’Italia, e si verificò anche un fenomeno altrettanto importante, visto dal nostro osservatorio letterario.
Infatti allora l’italiano, parlato e scritto nell’area lombardo veneta da una piccola classe di persone, e letto da meno ancora, subì un improvviso arricchimento nel lessico.
Non si tratta della “questione della lingua” tra latino e italiano, vecchia da secoli, tanto dibattuta dai linguisti, che spesso dimenticano come comunque di lingue in quella area culturale ce ne fossero almeno altre due, il veneziano e il francese. Ma del fatto che entrò, per restarci fino ad oggi, e si diffuse a tutti i livelli, tutto un nuovo linguaggio militare così come quello giuridico, quello dell’urbanistica come della cucina e della moda e questo perché le idee cresciute nell’Europa illuminista e romantica, erano diventate parole capaci di trasformare tutta una società.
Questo fu possibile soprattutto perché la stampa e il mondo dell’editoria fiorente da secoli a Venezia, fu spinto a gravitare verso Milano, divenuta il nuovo centro del potere politico ed economico. Un potere gestito prima da francesi e poi da austriaci, per la prima volta dunque da stranieri e questo cambiò la carica semantica di ogni forma d’arte, così che lo scrivere prosa di finzione come dipingere o creare musica, si caricò di un doppio significato, e divenne pericoloso.
Lo imparò molto presto a sue spese Cristina di Belgioioso, milanese esule a Parigi, giornalista e patriota, e tanti altri numerosi scrittori che si servivano di fantasia, umorismo e idee, per affidare alla loro prosa, rivolta ad un pubblico sempre più vasto di lettori, un messaggio di speranza di libertà.
Nacque allora una seconda lingua e una seconda letteratura, quella che si basa sulla carica plurisemantica delle parole: VIVA VERDI scritto sui muri, un graffito apparentemente innocente, era di fatto uno slogan politico, perché il suo vero senso era Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia.
Una Italia unita, indipendente, che ancora non c’era.
Esisteva nella versione italiana edita a Venezia nel 1545, un modello di questo genere di prosa, l’Utopia di Thomas More, una opera dove idee, fantasia e umorismo proponevano nella cornice del racconto divertente di un viaggio avventuroso, tutto un mondo alternativo a quello presente.
Seguire la ricezione di quel testo, poteva permettermi di individuare la seconda narrativa italiana dell’Ottocento, parallela a quella pur sempre validissima che la tradizione scolastica ci tramanda come unica, mentre capire il dialogo tra i due livelli letterari e quindi linguistici potrebbe maggiormente avvicinare l’intera espressione letteraria alle nuove generazioni.

   Un narratore che gioca sul doppio livello della letteratura italiana sotto la spinta della nuova realtà politica, fu Ippolito Pindemonte, grande traduttore dal greco assieme a pochi altri (Monti, Foscolo) raffinato autore di Prose e poesie campestri, e insieme autore di due favole per bambine, le future donne italiane, e di un romanzo apertamente “politico”  Abaritte, storia verissima, il racconto del viaggio in Europa di un principe persiano (forse amico di quello curdo incontrato da Cristina?) alla ricerca di un modello di governo che assicurasse la libertà del suo paese.
Questo Pindemonte è stato abilmente nascosto ai lettori moderni dalla critica del Novecento così come lo è stato tutto il giornalismo, il teatro e la favolistica dell’Ottocento, tutti campi che meritano ricerche approfondite. Io mi sono limitata a seguire, per evitare di smarrirmi, un solo indizio, quello suggerito dall’Utopia, e questo mi ha portato alla lettura del Conciliatore il giornale più diffuso nel primo Ottocento nella società del Nord Italia, nella speranza di trovare le prove della seconda narrativa.
Infatti sulle piccole pagine azzurre del periodico milanese ho incontrato Federico Confalonieri  (1785-1846) uno dei fondatori, che tra i suoi molti contributi alle polemiche letterarie e politiche del tempo, inserisce anche il racconto di un Viaggio di un abitante della luna sul globo terrestre dove sono presenti tutti i temi della narrativa di utopia di tipo scientifico in funzione di una aperta satira antiaustriaca.
L’alieno Fric-Frac arriva in una città sublunare, tanto simile alla Milano del tempo, e combina ogni possibile guaio soprattutto quando si imbatte nei sacerdoti che “in segno di tolleranza volevano sterminare la luna e i suoi abitanti” una palese partecipazione alla fiorente satira anticlericale. Non ci stupisce che Confalonieri abbia avuto grossi problemi con la polizia austriaca.
Nello stesso inchiostro intingeva la penna anche un altro scrittore, uno dei tanti piemontesi esuli nella Milano napoleonica, figura centrale nel Conciliatore, amico del Confalonieri, Silvio Pellico (1789-1854) divenuto famoso più tardi con Le mie prigioni, il tragico tristissimo racconto della sua prigionia allo Spielberg dove più tardi lo relegarono gli austriaci assieme ad altri patrioti.
Lo stesso Pellico non perde l’occasione di inserire nel Conciliatore il  racconto di un viaggio fatto da un abitante di un “altro mondo”, la bucolica  pariniana Brianza, verso Milano, la frenetica capitale del tempo, in cerca di fortuna.
Nel Breve soggiorno in Milano di Battistino Barometro (Il Conciliatore, 1818, oggi a cura di M. Ricciardi, Napoli, Guida 1983) il Pellico ci racconta le avventure di un giovane contadino brianzolo (pare il fratello furbo di Renzo Tramaglino) alla ricerca di fortuna, che per amore di una bella ragazza, entra in contatto con la borghesia milanese quando è invitato a pranzo dalla famiglia della sua bella. Il padre, il signor conte amico degli austriaci, pieno di debiti, borioso e arrogante, la madre carica di gioielli forse falsi, tanto simile alla contessa del Parini, il parroco adulatore fedele dell’ufficiale austriaco, ospite abituale. Una scenetta di genere che ci rivela un Pellico umorista, del tutto inatteso rispetto al solito ritratto deprimente che ci viene tramandato.
L’autore ci rivela la fonte della sua ispirazione quando leggiamo nelle sue Opere complete
(Napoli, Rossi, 1855) alle pagine 273-296, una tragedia intitolata Tommaso Moro, scritta nel 1833, dedicata ad una principessa francese, contemporanea e amica di chi scrive, autrice di un romanzo di grande successo europeo sul cancelliere inglese, pubblicato poco dopo l’opera teatrale del Pellico.
Il teatro impegnato dell’Ottocento dove brilla anche il fratello Giovanni del nostro Pindemonte potrebbe essere terreno di scavi proficui, così come i tanti libretti d’Opera, pensiamo al Guglielmo Tell di Rossini per esempio, o ai Lombardi di Verdi.
Tutta una letteratura “altra” carica di allusioni al presente e di speranza per il futuro.

Laura Schram Pighi

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