Oz Amos – “Storia di amore e di tenebra”

…a cura di Elisa Zoppei

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Amici cari, ho scelto di presentarvi “Storia di amore e di tenebra”, romanzo autobiografico di Amos Klausner, conosciuto nel mondo come Amos Oz, nato a Gerusalemme il 4 maggio 1939, e venuto a mancare qualche mese fa a Tel-Aviv, il 28 dicembre 2018. Credetemi ho l’impressione di aver osato lanciarmi in una avventura storico letteraria umana più grande di me. Non so fino a che punto riuscirò a rendere questa “Storia” nella sua smisurata bellezza e complessità. Pubblicato nel 2002, nella collana “I Narratori” di Giangiacomo Feltrinelli, con la traduzione di Elena Loewenthal, il libro conta 627 pagine, ognuna delle quali, rappresenta un fondamentale tassello di vita dell’autore, e ogni parola ne vivifica il significato. Amos è l’unico figlio di due ebrei sionisti dell’Europa orientale immigrati a Gerusalemme, incalzati dal dilagante odio del mondo occidentale verso il popolo di Abramo. Il padre è Arieh Klausner assunto come bibliotecario alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme dove, per anni svolse il suo compito con passione e diligenza. Era brillante oratore, in grado di leggere sedici, diciassette lingue, ma nell’intimità lui e sua moglie parlavano l’yddish. Appassionato studioso di ogni scibile umano, amava sopra ogni altra cosa i libri. E trasmise questo infuocato amore al suo figlioletto, che ne trasse tutto il succo possibile per nutrire il suo spirito, la sua fantasia e la sua penna.

La madre Fania Mussman, era una donna colta, sensibile affascinante, misteriosa e riservata, poco incline allo scherzo e agli schiamazzi. Erano ambedue appartenenti a famiglie di censo sociale culturalmente elevato, i quali dopo una diaspora drammatica e la perdita dei beni di famiglia, nel 1938, salvandosi dalle persecuzioni naziste, riuscirono ad approdare a Gerusalemme. Scrive Amos che il padre “amava molto parlare, esporre spiegare, mentre la madre sapeva ascoltare e sentire anche ciò che stava fra le righe. Lui era colto e versatile, lei aveva lo spirito di osservazione ed era una fine conoscitrice dell’animo”. Ed era anche la sua narratrice preferita di storie, che alimentavano la sua voglia di volare fra altre storie inventate da lui che lo rendevano felice, non avendo fratelli e sorelle, di crearsi da solo un mondo appartato, avventuroso tramato di eroismi e ardimenti come possono esserlo solo i sogni. Lo abbandonò, la madre, un giorno d’estate, che lui aveva 12 anni e mezzo, andandosene dalla vita, senza salutarlo, lasciandolo tramortito, spezzato, senza pace, colmo di un risentimento durato a lungo negli anni. Forse mai risolto del tutto.
Volle il ragazzo dare una svolta alla propria vita, voltando le spalle a tutto all’infanzia, al padre e alla casa di Gerusalemme angusta e senza sole, per andare a vivere in un Kibbutz. E solo anni dopo, leggendo nei testi di Čechov come il grigiore di una vita di privazioni possa spezzare nel cuore di una donna la speranza della felicità, comprese la causa del gesto di sua madre. Capì che abituata da ragazza nella casa signorile di un facoltoso mugnaio, servita da cuoca e cameriera, non ce l’aveva fatta ad adattarsi alla sua grama vita di donna maritata.

Non traccerò le solite note biografiche, facili da rinvenire in Wkipedia – Amos Oz, ma mi lascerò prendere per mano da Lui, Amos, che raccontando la sua vita ci immette nel tabernacolo dei suoi più intimi e reconditi sentimenti.

Amos Oz

In questa foto non molto recente possiamo vedere un uomo più vicino ai settanta che agli ottanta, il quale assomiglia moltissimo all’Amos protagonista della “Storia d’amore e di tenebra”, soprattutto per quello sguardo pungente, ironico e azzurro ereditato dal nonno materno Neftali Hertz, che sapeva sorridere di ogni cosa, bella o brutta che fosse. Ne aveva passate tante. Quasi a ricalco della storia del buon Giuseppe in Egitto, da ragazzo era stato “venduto come servo” a una principessa, stramba e follemente bigotta, ma riscattandosi col lavoro, l’intelligenza inventiva e un grande talento organizzativo, riuscì a costruirsi un futuro agiato, diventando un ricco possidente di mulini, amato e rispettato dai suoi numerosi dipendenti. Non covò mai risentimento verso i suoi genitori che lo avevano cacciato di casa, anzi riservò un posto di prestigio negli uffici del mulino al padre Efraim, ricordato in famiglia come un vero patriarca profetico con il volto contornato da una candida barba e da sotto le sopracciglia folte, bianche come la neve, ammiccavano con allegra monelleria due occhi celesti come limpidi laghi. Sì, il bisnonno Efraim sembrava proprio Dio, ma a cinquant’anni era già un po’ rimbambito e “sordo come dio in persona”.

È un lungo intenso minuzioso racconto fluentemente altalenante con passaggi continui e non sequenziali nelle varie tappe di una vita respirata in tutte le sue minime possibilità di essere vissuta fino allo spasimo, per essere raccontata. Immagini, paesaggi, interni di case minuziosamente descritti, volti e voci, e sentimenti di fierezza serpeggiante di orgoglio e di paura, sono tradotti in parole e parole tutte essenziali al senso del discorso. Trascinano il lettore lungo un cammino esistenziale pieno di modi di essere e di sentire, che si sovrappongono e parlano di un mondo intellettualmente conturbante, fantastico, ma storicamente pericoloso e ostile agli ebrei.
La parte più bella e interessante della storia di Amos è quella della sua infanzia che, pur vissuta in ristrettezze economiche, nell’angusta casa dal soffitto basso, ubicata al pian terreno di una palazzina fatiscente, è così ricca di aneddoti spiritosi e guardata con tanto senso umoristico da far venire la voglia di andare incontro a quel bambino, così sveglio e precoce dal comportamento esemplare, che impara a leggere da solo, e sorprende amici e parenti con le sue battute. Vorremmo dividere con lui la letizia di sentirsi amato, considerato, esaltato da genitori che si rivolgono a lui chiamandolo “Sua maestà” “Vostra eccellenza”, e coccolato dai più grandi illustri uomini del suo tempo: scrittori come S. Yosef Agnon (1887-1970 Premio Nobel per la Letteratura nel 1966), e poeti come Saul Černichovskij (1875-1943), saggisti e filosofi. Si riunivano nel Salotto Letterario della nonna paterna Slomith Levin, donna di rango, amante dei libri, che aveva quasi dieci anni più del marito, nonno Alexander Klausner sposato a New York, dopo una rocambolesca traversata dell’Oceano, affrontata per fuggire insieme dalla rabbia antisemitica che imperversava in ogni dove europeo. In quel periodo (dal 1880 al 1917) circa due milioni di ebrei emigrarono in America con il biglietto di sola andata. Era però capitato che durante il viaggio, il promesso sposo, appena diciottenne si innamorò pazzamente, perdutamente disperatamente di un’altra passeggera, anche questa di dieci anni buoni più grande di lui. La promessa sposa però non lo mollò. Lo afferrò per un orecchio e se lo tenne stretto così per tutta la loro vita, facendolo rigare dritto. Tornarono nel 1933 a Gerusalemme appena in tempo per acclimatarsi e ricominciare da capo. Quando nonna Slomith, padrona di casa di gran gusto, agghindata di tutto punto, riceveva in casa con grazia ed eleganza, gli ospiti intellettualmente più in vista della israelitica Terra dei Padri, nonno Alexander la seguiva obbediente, offrendo cioccolatini alle signore, liquori e sigari ai signori e a tutti fiumi di tè caldo dal samovar. Nonno Alexander aveva anche una vita sua, fuori di casa e dalle sgrinfie di sua moglie possessiva e autoritaria: era un bravissimo commesso viaggiatore e da spirito libero disprezzava con parole infuocate le tenebre dell’odio etnico che oscuravano il cielo di tutta Europa. Contrastava l’antisemitismo cattolico che echeggiava fra le arcate di pietra delle imponenti cattedrali europee; respingeva l’antisemitismo protestante che guardava agli ebrei con occhi freddi e letali; combatteva il razzismo tedesco, denunciava la sete assassina austriaca così come l’odio antiebraico polacco, la crudeltà lituana, ungherese, francese, biasimava la sete di pogrom ucraina, rumena, russa croata, il disgusto per l’ebreo in Belgio Olanda, Inghilterra Irlanda Scandinavia. Le parole masticate di nascosto, o gridate fuori di testa di nonno Alexander colpivano a destra e a manca come dardi fiammeggianti qualunque gli capitasse a tiro.

Amos però lo ricorda soprattutto come un grande amatore di donne. Per oltre vent’anni, dopo la morte della moglie (frenetica della pulizia, maniacale nemica dei microbi che faceva morire a furia di Flit, morì ella stessa, ancora tutta insaponata, dentro la vasca da bagno,) le sedusse fino alla fine dei suoi giorni con arte e poesia, facendole sentire uniche, belle, capite e amate. Soleva dire che Schiller aveva scritto che non esiste in tutto l’universo un mistero più profondo di quello che si cela nel cuore di una donna, e che nessuna donna ha mai svelato, né mai svelerà a un uomo i suoi segreti femminili. Ma se il grande romantico lo avesse interpellato, gli avrebbe risposto: io ci sono stato. Per lui il cuore femminile non aveva segreti. Lasciò questa terra all’età di 97 anni e tantissime donne che lo mantennero a lungo vivo nel loro cuore.

L’altra figura che primeggia nei ricordi infantili di Amos è la maestra Zelda, cui dedica pagine e pagine dense di amore. Ella fu il suo primo vero amore a fargli battere il cuore, abitando i suoi sogni e sconvolgendo le sue notti. La maestra Zelda in seconda elementare lo metteva in grado di sentirsi un bambino folgorato di luce. Sognava di sposarla.
Nessuno dei grandi lo ascoltava come lo ascoltava lei: lo ascoltava con lentezza e serietà come se stesse imparando da lui cose che le piacevano e la incuriosivano
Fu lei a fargli scoprire l’incanto delle parole che davano vitalità alle storie. Quando parlava di neve, il racconto stesso pareva scritto con parole fatte di neve. Se parlava di incendio le parole bruciavano. Le parole le vorticavano in bocca. Gli aprì il mondo della poesia, facendogli toccare con mano che a volte una parola esige intorno a sé il silenzio, perfetto: vuole spazio.
Le sue prime poesie furono quelle ispirate dall’amore per la maestra Zelda: gliene portava in dono una ogni mattina.
Più tardi scoprì che quella donna che aveva il potere di scaldare il suo mondo interiore con le parole, era una grande poetessa ebrea: Zelda Schneersohn Mishkovsky (1914-1984).
Quando, cresciuto e fatto uomo, andò trovarla nella sua casa, fu profondamente commosso dal fatto che Zelda ancora ricordasse come gli piaceva bere la limonata.
Riaffiorò anche il ricordo che, in quei tempi bambini, lui da grande voleva diventare un libro. Nel buio della sera captava nell’aria parole sussurrate a mezza voce: campi di sterminio, treni della morte … L’aria era impregnata di paure che filtravano delle fessure delle finestre, si annidavano nei cuori, si trasformavano in incubi notturni. Dove nascondersi? Diventare un libro, per lui era l’unico modo di sfuggire alla morte, se non altro per avere qualche probabilità che almeno una copia sperduta sarebbe riuscita a sopravvivere, magari in un altro paese, in una biblioteca remota, in qualche scaffale dimenticato da Dio. Solo i libri riuscivano a nascondersi, a sprofondare nel buio della polvere, sotto cumuli di fascicoli e riviste, a trovarsi un nascondiglio inaccessibile dietro altri libri…

Mi fermo qui. Lascio a voi cari lettori il piacere di scoprire come prosegue questo monumento alla storia ebraica, e dove vi porterà il buon profumo di terra intriso di rugiada, frammisto a un sentore di zolfo e rovi e fuochi spenti: l’odore della Terra d’Israele da tempi immemorabili.
Vi affido al cuore vagabondo di Amos Oz, smaniosi come lui di levarvi le scarpe e camminare scalzi in punta di piedi sulle strade del mondo.

Buona lettura. Vs. Elisa

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