L’Alpino: “Scemo di guerra… – 24/14

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Scemo di guerra

Racconto liberamente ispirato alla figura di don Primo Discacciati, 
cappellano militare all’Ospedaletto di Storo dal 1915 al 1918.

ERANO PARTITI DA STORO ALL’ALBA
Giovedì 21 giugno 1917

IL VOLTO DEL FRATE ERA TRISTE E SPRIZZAVA COMPASSIONE SINCERA
Venerdì 22 giugno 1917

ICARO TOMASI AMMUTOLI’ DI FRONTE A TANTA INSOLENZA
Sabato 23 giugno 1917

(continuazione…)

«Però l’hanno processata di nuovo e i dottori hanno sentenziato che la sua era simulazione…»
«Appena dopo una condanna a vent’anni di carcere, caro don Primo, un secondo processo per simulazione non ti lascia via di scampo. Adesso lo so, sulla mia pelle. In tribunale ci sono rimasto meno di dieci minuti, il tempo di dire nome e cognome – e lì abbiamo perso almeno cinque minuti, perché io facevo finta di non capire, di non ricordarmelo, – firmare un pezzo di carta con la sinistra e la sentenza è stata emessa. Fucilazione da eseguirsi immediatamente! Per la gioia del colonnello Icaro Tomasi!»
«In tutto quel tempo» chiese il cappellano militare, «all’epoca del primo e poi del secondo processo, non ha mai pensato, don Sergio, ai suoi commilitoni lasciati in trincea, sul Pasubio?»
Gli occhi del povero prete soldato si riempirono di lacrime e le labbra s’incresparono nel tentativo di trattenere il pianto.
«Quelli sono i fantasmi che mi hanno fatto compagnia di notte e di giorno fino a qui, in questa nuova stanzetta. Si fidavano di me e di quel che dicevo, mi chiedevano ragione degli ordini folli che venivano impartiti dai capitani e dai colonnelli, cercavano difesa dai soprusi feroci dei sergenti, supplicavano il mio intervento per ammorbidire un poco l’ignoranza di certi caporali… Non li ho dimenticati, i miei amici, li ricordo tutti per nome: Ettore Degortes, il piccolo sardo di Olbia sempre sorridente; Leopoldo Ricci, il romagnolo che s’accendeva per un nonnulla; Marcello Giuliani, il trentino che non la smetteva mai di parlare di Arco, il suo paese, che aveva lasciato per passar dall’altra parte, dalla parte di quello che sarebbe dovuto essere il nemico, che però parlava la sua stessa lingua; Vittorio Pacetti, romano di Roma che suonava l’armonica in modo stupendo… Chissà se ci sono ancora, tutti assieme e ancora vivi…»
A quel punto Alcide si alzò e s’avvicinò a don Primo. «Signor cappellano, avrei da parlarle. Possiamo uscire un minuto?»
«Cosa c’è?» chiese Discacciati quando furono sul corridoio.
«Mi dica se ho capito bene» mormorò Alcide guardandosi sospettoso in giro. «Lei è stato mandato qui al forte San Marco per vedere se questo don Sergio Babbolin è ammattito sul serio oppure se è bravo a fingerlo. Nel primo caso, vita salva e manicomio per tutta la vita; nel secondo, il plotone di esecuzione è subito qui fuori, nell’altro cortile.» Il giovane si fece ancor più vicino e abbassò il volume della voce: «Siccome abbiamo scoperto che il condannato sta fingendo d’essere pazzo, adesso che si fa? Cioè, cosa fa lei? Mette quel poveretto tra le grinfie del colonnello Icaro Tomasi?»
«A volte, Alcide» rispose il cappellano dopo un lungo istante di silenzio pensieroso, «a volte abbiamo bisogno di rivolgerci a qualcuno al di sopra di noi per avere un consiglio. Ho telegrafato al cardinal Ferrari di Milano, quello che mi ha ordinato prete, e gli ho chiesto come devo comportarmi. Obbedire agli ordini del colonnello Tomasi e consegnargli il prigioniero pronto per il plotone, oppure mentire, coprire la sua codardia e fargli avere almeno la vita salva, se non la libertà.»
«E ha risposto, questo cardinale?»
«Ancora no, ma non dovrebbe mancar molto. E allora teniamo duro: fingiamo d’esser ancora in cerca della verità e intanto vediamo di migliorare per quel che possiamo le condizioni di vita di quel poveretto. Quanti sono i giorni che siamo qui?»
«Dal giorno del nostro arrivo ne son passati tre.»
«Diamocene altri due al massimo e poi decideremo il da farsi. Adesso va a prenderci la cena, che io torno dentro.»

Ilario Péraro – (14 continua)

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